La valle tra Narni e Terni è lo spettacolo più bello che si possa immaginare.
Il Nera vi serpeggia con le sue curve, i cespugli qua e là lo fanno assomigliare a un grande giardino racchiuso tutt’intorno dalle montagne.
– Johann Jacob Volkmann –
Secondo alcuni antropologi, a partire dal 1300 a.C. iniziò una vera e propria colonizzazione dell’Italia da parte di nuove popolazioni provenienti dal centronord Europa. Questi popoli si differenziavano dai pochi residenti italici perché usavano cremare i corpi dei defunti conservandone i resti combusti in urne cinerarie biconiche. Tali urne venivano poi sepolte sottoterra, in pozzetti scavati con molta cura e circondati da ciottoli.
Secondo gli studiosi, questo rito funebre era già diffuso nel centro-nordest dell’Europa e quando vennero scoperte le prime urne a Villanova di Castenaso, presso Bologna, gli archeologi chiamarono tale epoca “Cultura Villanoviana”. Oltre a questo rituale funerario, i popoli che erano arrivati anche in Umbria avevano un’altissima padronanza nella lavorazione dei metalli, come testimoniano i bronzetti e i monili trovati nella grande necropoli delle Acciaierie ternane, ricca di almeno 2500 tombe riferibili al 1.200 – 1.150 a.C. e andate in gran parte distrutte.
Siamo quindi i discendenti di questi bravissimi artigiani? Dopo oltre tremila anni, con tutti quelli che hanno attraversato la penisola da tutti i punti cardinali, che hanno sostato lungamente divenendo in parte stanziali, vai a capire da chi abbiamo preso i caratteri preminenti.
Eppure se è vero, com’è vero, che una piccola ma significativa frazione del genoma dei Neanderthal è ancora presente nel DNA delle popolazioni umane di oggi, frutto degli accoppiamenti fra loro e i primi Homo sapiens che si andavano diffondendo dall’Africa circa 100.000 anni fa, non dobbiamo disperare. Se tanto mi dà tanto, sicuramente un bel tratto di codice genetico risalente a qualche millennio fa dovremmo averlo conservato.
L’attitudine a lavorare i metalli, la cura delle ceneri degli antenati, la conservazione di una parte della storia antica in tante parole, usanze, feste, modi di dire e di fare, come ad esempio la festa di maggio con i carri, sembra derivino, sempre a detta degli antropologi, dai nostri avi.Un popolo così me lo immagino altrettanto preciso nella cura dell’abitazione, dei campi, degli animali e dei boschi, anche perché sembra ritenessero che ogni cosa intorno a loro — fino al sole, alla luna e alle stelle — avesse una dinamica spirituale propria.
E noi con qualche anno in più, questa cura del bello, dell’ordinato, del non sprecare alcunché lo abbiamo visto e vissuto negli anni ’50 del secolo scorso. Certo, c’erano state due guerre mondiali, ma i campi coltivati fino all’ultimo solco, la ricerca costante anche di una spiga di grano o di un solo chicco di oliva, la cura amorevole del bestiame, la potatura delle piante che era fatta in modo da essere anche bella da vedere, venivano da ricordi ancestrali forse scritti nel DNA.
Il contadino che diventava operaio metalmeccanico appena poteva si sistemava in una casetta, magari in periferia, ma col suo bravo fazzoletto di terreno irriguo dove poter fare un orticello, piantare una vite, un olivo, insieme a fiori e a erbe aromatiche per la cucina.
Qualcuno ricorderà questa parte di Umbria da Narni, Amelia, Spoleto e tutta la Valnerina fino a Norcia, abbellita di orti lussureggianti nel mese di luglio. Io ricordo in particolare il grande orto che faceva la mia famiglia nella zona di Piediluco con i lunghi filari di fagioli rampicanti di vario tipo, le piante di pomodoro allineate come soldati in parata e le zucche e i cetrioli che invece crescevano senza regole e senza simmetrie apparenti.
Ricordo anche gli orti e i pergolati di pizzutello di Campomicciolo e Vallecaprina, zone abitate in prevalenza da amerini o comunque da famiglie che si erano trasferite a Terni da altre parti dell’Umbria e d’Italia. Avevano venduto quel poco che avevano ai loro paesi per comprare un fazzoletto di terra non lontano dal luogo dove figli e figlie avevano trovato lavoro. Mio nonno materno da Fornole di Amelia, povero in canna, contadino su terra altrui, si era trasferito per il medesimo motivo a Campomicciolo, cambiando solo terreno e padrone, per dare ai propri figli una casa nelle vicinanze del posto di lavoro.
E i figli, una volta sposati, si davano da fare per costruire una casetta col suo bravo fazzoletto di terra intorno.
Poi, con il boom economico, piano piano incominciò un cambiamento radicale.
Vennero inventate e messe in commercio macchine che erano in grado di svolgere lavori che l’umanità si era accollata per millenni e questo comportò una corsa agli acquisti anche rateali.
La televisione portò in tutte le case, oltre all’informazione, anche l’intrattenimento e il tempo risparmiato dai lavori manuali veniva impiegato nel tempo libero che non bastava mai. Intanto la Scienza aveva inventato le materie plastiche (e mò e mò…? Moplen!),
i vaccini per prevenire le malattie, gli antibiotici per curare le infezioni e tanti altri farmaci che fecero aumentare l’aspettativa di vita ma anche, essendo diventati gratuiti, la nettezza urbana. Gli stabilimenti producevano a ritmo serrato ogni bene di consumo che, una volta consumato, veniva buttato nell’immondizia.
Nessuno si preoccupava dell’inquinamento prodotto dalle fabbriche, né di quello prodotto dalle migliorate condizioni di vita e quindi dal riscaldamento domestico e da tutti i motori che faticavano al posto dell’uomo. Anche gli artigiani si erano lasciati trascinare da questo andazzo correndo come pazzi perché così voleva il mercato, dedicando il minor tempo possibile a svolgere il loro lavoro, perdendo anche il piacere di poter ammirare un lavoro ben fatto o un manufatto bello a vedersi. Intanto venivano fuori altre patologie collegate allo stress e crescevano i casi di tumore dovuti anche all’inquinamento.
Adesso siamo arrivati al punto che ammazziamo e ci ammazziamo anche per un nonnulla, specialmente i giovani ma non solo. Basta un’imprudenza, una dose sbagliata di droga, un eccesso di alcool, una parola in più, una rissa e qualcuno si ritrova all’obitorio. Il virus dello sballo, dell’intolleranza e dell’odio contro gli “altri” è stato sparso a piene mani da molti, prima che arrivasse il Covid 19. Alla fine è arrivata la pandemia virale che ha imposto a tutti uno stop non solo fisico ma anche mentale.
Ma cosa stiamo facendo? Abbiamo ridotto il mondo a una pattumiera e anche la natura ci si rivolta contro? Allora cosa facciamo? Torniamo ai tempi del Gran Tour quando Terni e dintorni erano un eden? Perché no? Basterebbe ridurre ai minimi termini l’inquinamento industriale.
È possibile, in Germania le acciaierie non inquinano come da noi! Avremo i fondi europei per l’economia green, adoperiamoli bene. Torniamo a fare molte manutenzioni per preservare chiese antiche, monumenti e opere d’arte invece di fare prevalentemente inaugurazioni. Torniamo a godere per aver fabbricato qualcosa di bello e di duraturo nel tempo. Torniamo a fare le strade con le giuste pendenze in modo che in caso di piogge non si trasformino in laghetti. Teniamo puliti i tombini specialmente nei sottopassi, tagliamo le siepi quand’è ora, in una parola rimettiamo un po’ d’amore nelle manutenzioni come facevano gli stradini di una volta. Teniamo agibili anche le strade nei boschi, specialmente quelle battute dai pellegrini, che torneranno numerosi non appena si attenuerà il rischio di infezioni. Mettiamo ogni tanto lungo i percorsi un cartello almeno bilingue con il nome delle
specie arboree che li costeggiano e altrettanto se c’è un rudere di epoca romana o una roccia di qualche milione di anni fa.
Promuoviamo San Valentino di Terni nel mondo, insieme a tutte le altre bellezze che possediamo nella provincia circostante, promuoviamo la cultura e la conoscenza della nostra storia, incrementiamo di nuovo anche la cultura degli orti, dei nostri allevamenti, delle nostre vigne e dei nostri uliveti. Allora sì che i turisti torneranno numerosi e la cura della nostra terra attenuerà le nostre ansie e le nostre depressioni. Puniamo severamente
quei pochissimi che propinano agli ignari cibi non all’altezza della nostra tradizione culinaria e dolciaria. Avremo allora tanti nuovi posti di lavoro per tutti, uomini e donne, e la Valle
Incantata tornerà a splendere come quasi ai tempi del Gran Tour.
Fare qualche passo indietro per evitare un baratro, continuando ad avanzare con meno rischi e molte più idee aggiornate, oggi si chiama resilienza. Una volta si sarebbe detto buonsenso.
Vittorio Grechi