Achille era nato nel 1875 come figlio di contadini non proprietari. Povero com’era, aveva lavorato sempre nei campi degli altri e vissuto nelle case degli altri.
Si era sposato, aveva avuto dei figli, tre maschi e una femmina, e con tanta fatica era riuscito ad allevarli con l’aiuto indispensabile della docile moglie e a farli studiare fino alle scuole dell’obbligo.
Da vecchio, coltivava un fazzoletto di orticello, abbinato al monolocale in affitto, dal quale ricavava sapientemente più del necessario per la sopravvivenza sua e della moglie. Per non consumare le scarpe si era fabbricato un paio di ciocchi in legno di pioppo, leggeri e duri, adatti sia per vangare che per qualsiasi altra attività orticola. Era un tipo metodico. L’orto era distante una quarantina di passi dalla casa e lui li percorreva come se dovesse andare di fretta chissà dove. Apriva il cancelletto d’accesso al piccolo appezzamento di terreno, poi spalancava la porticina di un bugigattolo di quasi un metro quadrato, fatto con tavolette di legno inchiodate e una lamiera per tetto. Al centro di questa mini stanza c’era una sgangherata seggiolina ove si sedeva per togliersi le scarpe e infilare i ciocchi, dopo aver avvolto le estremità nelle pezze da piedi di lana per evitare vesciche e abrasioni provocate dal legno. Nell’autunno precedente aveva preso la zucca che aveva lasciato crescere a volontà fino a maturazione, l’aveva aperta, aveva tolto il groviglio di semi al suo interno, li aveva lavati separandoli ad uno ad uno dai filamenti, poi li aveva stesi su un foglio di carta paglia per farli asciugare al sole.
Una volta asciutti, li aveva staccati dalla carta con la lama di un coltello e li aveva riposti nel piccolo barattolo di latta delle Pastiglie Valda. Poi aveva scritto con mano tremante, non adusa a penne e matite – aveva frequentato solo la scuola dell’obbligo del periodo, cioè la seconda elementare – la parola ZUCCE su un pezzetto di carta. Con un pizzico di farina e qualche goccia d’acqua aveva preparato una colla casalinga con la quale aveva attaccato la scritta sul coperchio del contenitore. Altrettanta cura aveva messo nel selezionare i semi dei pomodori maturi, dell’insalata, del prezzemolo, del basilico e della bieta.
A parte, su barattoli più grandi, conservava i semi dei fagioli, dei piselli e delle fave, con tanto di etichette scritte: nel primo caso ci si riferiva ai FACIOLI, mentre nel secondo c’era scritto BISELLI. Aveva anche tagliato molte canne, le aveva ripulite dalle foglie e le aveva messe a seccare al coperto. Servivano per sostenere le piante dei pomodori, dei piselli, dei fagioli, dei cetrioli e anche delle melanzane. Ogni anno bisognava sostituire una grossa parte di quelle vecchie perché, a forza di annaffiare, marcivano. Calzati i ciocchi iniziava a spargere il letame di cavallo che un vicino gentilmente gli permetteva di usare, ottenendone in cambio un assaggio dei prodotti dell’orto. La terra era così sciolta e friabile che a vederlo vangare sembrava non facesse fatica.
Dopo qualche giorno per far asciugare e riposare il terreno, iniziava a fare i solchi con una perizia degna di un geometra. Il giusto spazio per fave, cipolle, agli, patate e verdure varie e un lungo solco accanto alla strada per i fagioli rampicanti e per i piselli, cosicché la loro ombra fosse proiettata dove non faceva danno. Man mano che una coltura veniva raccolta, il terreno veniva subito cosparso di nuovo col letame, dissodato e seminato con quello che andava piantato secondo la stagione.
Per l’irrigazione non c’era problema: tutta la zona era percorsa da canali con acqua freschissima, chiamati in gergo le forme, dove ognuno metteva a rinfrescare un bel bottiglione di vino, legato al collo con un fil di ferro. Ogni forma aveva tante derivazioni in modo da poter irrigare tutti gli orti che si susseguivano, uno accanto all’altro, e sembravano non finire mai. Era uno spettacolo di colori che allietavano la vista e anche il palato. Adesso riuscire a vedere un orticello nelle medesime zone periferiche della nostra città è un’impresa disperata.
Sarà perché l’orto vuole l’uomo morto, come recita un vecchio detto, che questa sana abitudine — sana per il fisico e altrettanto per la psiche — è coltivata da un esiguo numero di appassionati? Infatti la presenza continua, giornaliera dell’ortolano era ed è indispensabile per controllare la giusta quantità di acqua e lo stato di salute dell’orto nel suo complesso.
In quel tempo bisognava schiacciare con le dita gli afidi, le cimici verdi dette puzzaiole e ogni altro insetto nocivo, irrorare i pomodori, dopo aver tolto loro le femminelle, col solfato di rame, individuare le talpe e cercare di farle fuori a colpi di bastone. Allora c’erano molti bambini – ora non più – tra i quali anche i nipoti di Achille, che giocavano nel grande spiazzo dominato da un enorme albero di gelso.
Non c’era ancora la Tv e tra un gioco e l’altro tutti sbirciavano incuriositi quel vecchio che passava intere giornate a trafficare nel verde. Allora Achille, sia per riposarsi, sia per intrattenere i piccoli ospiti, si metteva a raccontare loro di quando era stato in America e di come contavano gli americani. Uannne, du, tri… E tutti a ripetere maccheronicamente questa numerazione strana. Poi lui passava al pezzo forte: “L’americani so mezzi matti: sapete come chiamano ‘e ppotti (i ragazzini)? Ve chiamano boi. Da noi li boi (i buoi) so’ quilli co’ le corna!” E allora giù risate e sberleffi a non finire.
Vittorio Grechi