Materiali, eroi e carattere di una città di Carlo Santulli

Terni J-Irthinton (XVIII-XIX-sec)

Quando Ulisse, tornato dopo vent’anni da Penelope, si volle far riconoscere da lei, che restava fredda e non gli concedeva l’attenzione dovuta allo sposo, dovette parlarle di qualcosa che soltanto lei poteva conoscere, e cioè il talamo nuziale, il letto dove avevano dormito insieme. Non erano ancora i tempi di IKEA e quindi si trattava di un pezzo unico, basato su una struttura di legno d’ulivo. Solido ed affidabile, perché l’albero era davvero vecchio, sicuramente un po’ stortignaccolo, ma Ulisse con la pialla ci sapeva fare. Il letto era anche prezioso, tra oro e porpora, e lavorato col bronzo, come certi spaghetti di qualità superiore. Senz’acciaio, che non esisteva ancora, cosa strana per noi, che difficilmente abbiamo in casa un mobile dove esso non sia presente, anche nell’umile forma di giunzioni, come chiodi, viti o rivetti. Il racconto di Ulisse a Penelope è un breve prontuario della scienza dei materiali nota all’epoca. In questi versi si fa anche, tra le righe ma non tanto, un’affermazione molto impegnativa: che ogni materiale ha la sua personalità, se vogliamo il suo talento, e va lavorato in un certo modo perché lo esprima al meglio in un certo contesto. Pensando alla nostra città, Terni viene ricollegata con una certa facilità all’acciaio e più genericamente all’uso delle leghe di ferro, data la presenza di un’antica ferriera papalina. Un filo d’acciaio connette anche la città con la Valnerina, al termine della quale è posta, non soltanto per la presenza delle cascate che sono legate tra l’altro alla produzione di energia per l’alimentazione delle acciaierie stesse. Non a caso il film di Walter Ruttmann, “Acciaio” (1933), su sceneggiatura di Pirandello (padre e figlio) e con musiche di Gian Francesco Malipiero, è ambientato quasi in una terra di confine tra Terni, principalmente viale Brin, e la Valnerina, in particolare la salita verso il paese di Marmore, e mostra anche le due carrozze del tram di Ferentillo all’ingresso dell’Acciaieria, che dava una delle migliori possibili visuali della cascata, apparendo all’improvviso lungo la linea.
In realtà l’esperienza di Terni nei materiali va molto oltre questo: comprende anche fibre tessili, come il cotone, fibra da seme, molto sottile ed idrofila, che si diffuse a partire dalla scoperta del suo trattamento con soda caustica, o “mercerizzazione” (1844), la lana, per la presenza del lanificio Gruber, e la juta, per lo jutificio Centurini, che durante l’epoca dell’autarchia venne utilizzato, per l’esperienza accumulata nel trattamento di questa fibra dal “carattere” difficile, anche per esperimenti di filatura e tessitura degli steli di una pianta tipicamente italiana che si voleva proporre sul mercato, la ginestra. Questa pianta odorosa ma umile si piegava malvolentieri a quel servizio e, come dice Leopardi, che era anche esperto botanico, pienamente consapevole della sua fragilità: “Ma più saggia, ma tanto/Meno inferma dell’uom, quanto le frali/Tue stirpi non credesti/O dal fato o da te fatte immortali”. Anche nell’ambito tessile, la relazione con la Valnerina è molto forte, perché la canapa, che ugualmente veniva lavorata da Centurini, era coltivata nella valle, e messa a macerare nelle cosiddette “canapine”, ne rimane traccia anche in certi toponimi locali, come Macerino. Non a caso in Valnerina, a Sant’Anatolia di Narco, troviamo il museo della Canapa, che si occupa degli aspetti etnografici della ricostruzione della storia di questa pianta… e di molto altro.
C’è poi la storia di Terni più propriamente chimica, cioè nell’ambito delle plastiche, sia quelle originarie, quindi non di origine petrolchimica, ma da materiali residui di altre industrie, come la celluloide, prima nitrato di cellulosa e poi acetato di cellulosa. La transizione tra le due materie avvenne nel dopoguerra e viene efficacemente mostrata in “Nuovo cinema paradiso” dallo stupore dell’operatore Alfredo, interpretato da Philippe Noiret, al fatto che la nuova celluloide sia completamente inerte alla fiamma, troppo tardi per lui, che ha perso la vista in seguito ad un incendio. Anche la “Cines”, che si trovava a Roma fuori porta San Giovanni, tra via Veio e via Magnagrecia, dove appunto alcune delle scenografie di “Acciaio” furono costruite, il 26 settembre del 1935 andò a fuoco misteriosamente, sicuramente per effetto dell’autocombustione della “prima” celluloide. Ci fu chi parlò sottovoce, come usava all’epoca, di speculazione edilizia su quei terreni ormai circondati da palazzi. Poco dopo nacque molto rapidamente Cinecittà, ancora più in periferia, il che avvalora i sospetti. Ma in quel periodo tutto andava bene per decreto.