“Non è vero che io non mi sento disabile! Lo sono e ne sono ben consapevole. Anche perché difficilmente potrei dimenticarlo, visto che mi guardo quotidianamente allo specchio (mi piace farlo) e la memoria ancora non mi gioca brutti scherzi. Se dimostro naturalezza nel conviverci è “solo” perché ci sono scesa a patti e mi sono autorizzata a considerarmi anche altro. Mi sono detta “vado bene cosi”.
Non sono qui per spiegarvi come ho fatto o per incoraggiare qualcuno a fare lo stesso, perché francamente neanche io lo so come ho fatto, so che l’ho fatto e basta. Tuttavia, quando parlo di disabilità non me la sento di parlare solo per me e quindi il mio pensiero è anche per tutti gli altri “soci”. La comunità disabile esiste, io stessa ne faccio parte.
Dire che una persona disabile non si sente tale è fuorviante e contribuisce ad alimentare quella cultura abilista che ci vuole ai margini, escludendoci dalla società. Per non parlare del fatto che rimanda un’immagine dell’individuo non consapevole di sé.
Avere una disabilità significa avere un certo stile di vita, perché la disabilità è essa stessa uno stile di vita. Chi pensa che riguardi solo la problematica in senso stretto si sbaglia. Ciò che si sta cercando di fare adesso, e io in primis mi trovo d’accordo con questa nuova forma mentis, è di far sì che il nostro stile di vita sia al pari di quello degli altri. Quindi si, di normalizzarlo.
La normalità esiste ed è sicuramente un concetto che può inglobare il nostro modo di essere, al fine di poterci permettere tutti le stesse opportunità e diritti, visto e considerato, tra l’altro, che non è una condizione su cui abbiamo o abbiamo avuto una qualche volontà. Voglio concludere prendendo in prestito un pensiero di una psicoterapeuta che stimo molto, ovvero: “Da normalizzare c’è solo che non tutto è normale”. È verissimo ma io aggiungo che se non tutto è normale, la disabilità può diventarlo. E no, non è retorica!”
Elisa Romanelli