Nobilitiamo questo mestiere che dal nome sembra infimo, ricercandone le origini.
Nel XII secolo gli Arabi introdussero in Europa le prime cartiere, dove per lavorare la carta era necessario utilizzare materie prime formate da stracci di lino, cotone e canapa.
Gli stracci venivano raccolti e puliti da operai chiamati cenciaioli o straccivendoli. In Europa la diffusione della carta creò dei problemi per il reperimento della materia prima, gli stracci.
Questo mestiere a Roma era appannaggio quasi esclusivo degli ebrei. Alcuni Papi avevano infatti emanato delle bolle con le quali si proibiva agli ebrei di esercitare ogni arte tranne quella del cenciaiolo. Gli stracci da vendere erano quelli inutilizzabili perfino come pezze da piedi al posto dei molto più costosi calzini ma erano anche gli avanzi di nottate di lavoro delle nostre donne nell’ultimo dopoguerra per tirar fuori da coperte o indumenti militari, allora abbastanza facilmente disponibili, un cappotto per i figli o abiti per l’inverno.
Nel nostro territorio lu stracciaru era inizialmente colui che infaticabilmente, dalla mattina alla sera, percorreva le nostre strade spingendo un piccolo carrettino a mano con due ruote e due stanghe, raggiungendo con esso anche il casale più lontano e sperduto.
Man mano che il commercio andava avanti passava poi al carretto tirato dall’asino e infine dopo qualche anno all’Ape motorizzata. Gridava di continuo. “Femmene: arria lu stracciaru” in modo da sollecitare le donne a venire a vendergli qualsiasi cosa: stracci, ossa, rottami di ferro e di vetro ed in cambio, dopo lunghissima trattativa, dava loro aghi, ditali, rocchetti di filo, soda, liscivia, varecchina, sapone, mollette per stendere la biancheria, spazzole per lavare, pettini, etc. I bambini più piccoli temevano l’uomo perché le mamme minacciavano di darli allo straccivendolo se facevano i capricci mentre quelli più grandicelli trovavano sempre qualcosa da vendere per avere in cambio le biglie colorate di terracotta per giocare a schicchera.
Dopo qualche anno, vennero fuori le bellissime biglie di vetro colorate che emettevano un suono secco ed allegro quando venivano colpite con violenza da un’altra biglia. Siccome i soldi erano pochi, dopo una delle tante sfibranti trattative per stabilire il prezzo dell’oggetto che comprava, riferito al prezzo dell’oggetto che vendeva, avveniva quasi una specie di baratto che aveva il doppio vantaggio per la donna di liberarsi di cose inutili e di avere in cambio cose che le servivano.
Le donne contadine vendevano le penne dei polli per fare i cuscini e quelle della coda dei tacchini per fare ventagli o per altri usi. Quando le contadine ammazzavano un coniglio, lo scuoiavano in modo perfetto senza danneggiare la pelliccia, poi prendevano un robusto ramo di ornello, di olmo o di corniolo (lu crugnale), lo piegavano a metà fin quasi a romperlo, lo infilavano nella pelle rilasciandolo in modo che la tenesse ben tesa, poi la appendevano (lontano dai gatti) per farla asciugare. Veniva usata sia per la confezione di pellicce, sia per la fabbricazione dei cappelli di feltro.
Mia nonna Barbara, detta Barburella, piccola e magra, ma un fascio di muscoli, era rapidissima ad ammazzare e scuoiare un coniglio. Lo prendeva per le zampe posteriori, gli sferrava un cazzotto in testa, lo sgozzava con apposito coltello poi lo appendeva a un supporto per le zampe posteriori allargate. Incideva poi la pelle intorno alle zampe posteriori, poi faceva un taglio da una zampa all’altra passando per il basso ventre.
A questo punto bastava prendere la pelle con entrambe le mani, tirarla verso il basso fino
alla testa, altro taglio circolare ed il gioco era fatto. In pratica era come rovesciare una calza.
Vittorio Grechi