
Si racconta che verso la metà del 1800 si verificarono piogge molto abbondanti in Valnerina, così abbondanti che il fiume Nera era sempre gonfio d’acqua e trasportava spesso notevoli quantità di legname. I taglialegna con accette abbattevano alberi di ogni tipo e per ogni necessità, che poi accatastavano ai margini del bosco dove potevano essere caricati sui carri a trazione animale per essere portati dove venivano richiesti. Non c’erano ancora motoseghe a motore ma solo asce di ogni misura, più grandi o più piccole e così seghe piccole con un solo manico e seghe più grandi, dette segoni, con due manici, lunghe anche un paio di metri, da doversi adoperare in due persone per segare tronchi di grande diametro. I tronchi più corti erano trasportabili più facilmente ed erano venduti prevalentemente per il fuoco domestico, quindi per cucinare tutto l’anno e per riscaldare la casa nei mesi invernali.
Non tutti erano possessori di boschi da tagliare, ma tutti avevano necessità di legna o di carbone e la scorta di ciascuno doveva essere abbondante. In alcune zone le abitazioni erano prospicenti al fiume e poteva accadere che la scorta di legna, sistemata accanto alla casa e al forno per comodità, venisse asportata dal fiume nel caso di forte e non prevista esondazione. Allora, quando il fiume straripava, c’erano sempre uomini pronti lungo il suo corso con lunghi pali, muniti di ganci o chiodi sull’estremità, in grado di arpionare i grossi tronchi di legno e di trascinarli a riva lontano dall’impeto delle acque, impossessandosene. Le voci del popolo sostenevano che, secondo la legge, ciò che porta il fiume è di chi se lo prende. Si racconta che un giorno un gruppo di volonterosi – e bisognosi di legna – si erano sistemati presso una curva del fiume dove la corrente trasportava più facilmente e più vicino all’argine qualunque cosa galleggiasse sulle acque.
In quel punto il terreno era scosceso, distante alcuni metri dalle acque vorticose e protetto abbastanza da un rado boschetto di salicacee, dette in dialetto étriche. Il più coraggioso del gruppo, o il più incosciente, era il mio bisnonno paterno Antonio, detto Trambittu, sceso fin quasi a contatto con le acque turbolente: con una mano si reggeva a un arbusto mentre con l’altra manovrava il palo per arpionare i legni galleggianti che gli passavano a tiro. Una volta arpionato il tronco e accostato alla riva, con l’aiuto e la collaborazione degli altri era possibile tirarlo all’asciutto e accatastarlo più in alto, dove il fiume non sarebbe mai arrivato. Era una grossa fatica e anche un’attività pericolosa da dividere fra tutti, così come veniva diviso equamente il legname recuperato.
A un certo punto Antonio, che si era spinto troppo verso il fiume, scivolò e ci cadde dentro e nonostante fosse aggrappato con una mano a un robusto ramo di étrica, la forte corrente cercava di portarlo via. Allora impaurito si mise a gridare: Currete, aiutateme, San Felice de Cantalice aiutame tu! E i suoi compagni da sopra: Tieni forte l’étrica, nun te fidà de San Felice! E intanto erano scesi verso di lui, sorretti da alcune corde, e tentavano di strapparlo all’impetuosa corrente trascinandolo su verso l’alto. Appena riuscirono a farlo inerpicare all’asciutto, Antonio, da esperto verseggiatore, la buttò in rima:
Aiutateme rammelle* mie che adesso è l’ora
Che non c’ho avuta mai tanta paura.
A questi versi gli amici scoppiarono a ridere, lasciando per un attimo le corde e anche Antonio, che ripiombò nelle acque e per sua fortuna fu subito ripreso. Conclusioni: Quando non sei ancora al sicuro non fiatare.
*rammelle= gambe= zampe= trambe;
Trambittu= piccole gambe?
Vittorio Grechi