Il Mondo è in crisi. Lo dicono, sempre più, politici e studiosi e, soprattutto, i fatti di ogni giorno.
Di certo, non sta tanto bene in salute. Basti pensare che il famoso e terribile orologio, virtuale, che segna quanto siamo lontani dalla mezzanotte della civiltà umana, non lontana ad annientarsi, segna, per la prima volta, questo tempo, in secondi ( 90 ) invece che in minuti o ore o giorni. Ma, anche a prescindere dalla prospettiva estrema di una apocalisse atomica dell’Umanità, incombe su noi tutti il pericolo, sempre più evidente, per i segnali che manda, di un collasso climatico della biosfera, lo straterello di pochi chilometri che ospita la vita sul nostro Pianeta.
C’è soprattutto un punto critico su cui riflettere. La crisi climatica è sempre più veloce e perciò allarmante e il mondo reagisce con sempre maggiore lentezza, nell’adottare misure drastiche, sia, di mitigazione, sia, di adattamento.
Una lentezza che esprime una non consapevolezza diffusa del punto critico in cui siamo ed il potere di condizionamento del senso comune delle opinioni pubbliche, da parte dei poteri economici e politici che basano la loro forza sul possesso e l’impiego dei combustibili fossili. Il loro impiego energetico e chimico è la causa principale delle emissioni di gas come anidride carbonica, metano e protossido di azoto che provocano il riscaldamento del pianeta e l’alterazione conseguente del clima.
Lo aveva scoperto, lo scienziato svedese Arrhenius, fin dal 1896 ! Ma c’è una ulteriore ragione, forse la più difficile da superare, per il ritardo del mondo nell’affrontare la sua crisi epocale del cambiamento climatico; almeno nell’immediato, di anni, e nei tempi medi, di decenni, le diverse aree del mondo, in relazione alla loro posizione e al loro grado di sviluppo, non subiscono gli stessi effetti dal comune fenomeno dell’aumento delle temperature medie del mondo. Intanto perché l’aumento non è lo stesso in tutte le aree geografiche del mondo; si va da aumenti di 1,3 gradi fino ad aumenti superiori a 2 gradi.
Inoltre, avere solo due gradi in più, in certe aree e paesi situati su latitudini della fascia equatoriale, non è la stessa cosa di averli nel nord euroasiatico o americano, come nelle simili localizzazioni dell’emisfero Sud del mondo. In certe aree della Terra, un clima più caldo che causa siccità prolungata e alluvioni improvvise o un innalzamento dei mari per i ghiacci che si sciolgono, può provocare la perdita delle produzioni agricole e delle condizioni di vivibilità, come in certe isole; cioè una crisi degli ecosistemi locali, spesso, anche, assai poveri, da cui si può uscire solo con la fuga nelle migrazioni.
In altre aree del mondo, quelle più temperate o fredde, è addirittura possibile che le condizioni di vita migliorino, almeno per diversi aspetti; magari si possono piantare pomodori o vite da uva o arance, laddove non si andava oltre rape e patate. Così si determina una differenziazione degli effetti che si traduce in una diversità nella percezione del pericolo e dell’impatto, anche per le diverse capacità di adattamento al cambiamento, dipendenti dalle differenze di benessere e ricchezza; dalle differenze geomorfologiche dei territori e dalle diverse dotazioni infrastrutturali e culturali, dalla diversa forza economica. Così, tanto più in un tempo di nuova insorgenza di conflitti armati e di vere e proprie guerre di sterminio, come in Ucraina e in Palestina, diventa sempre più difficile immaginare la possibilità di un’azione congiunta delle Nazioni del mondo, basata sulla cooperazione internazionale, per fronteggiare, a nome e nell’interesse dell’intera Umanità, il rischio estremo dello sconvolgimento degli equilibri climatici.
Il sostanziale fallimento dell’ultima e recente Conferenza dell’Onu, sul clima, la Cop 29 tenutasi a Baku, nell’Azerbaigian, dimostra quanto sia difficile trovare una intesa fattiva tra paesi situati a diverse latitudini e tra coloro, la parte più ricca e sviluppata del mondo, che ha causato il problema e coloro, i poveri del mondo, che invece, pur incolpevoli, ne subiscono le maggiori e spesso drammatiche conseguenze. Occorrerebbero enormi investimenti per sostenere, qui, la transizione ecologica dell’economia, e lì, nei paesi poveri più colpiti, sussidi e risarcimenti per i danni subiti, spesso irreversibili.
Ma investimenti e aiuti non possono essere realizzati solo a debito. Sono necessarie risorse di tipo fiscale, in misura superiore rispetto al passato. Sul dove trovarle è aperta una discussione che non può essere separata dall’analisi di un fenomeno degli ultimi anni, quelli della concentrazione della ricchezza, dovuta alla globalizzazione, al primato della finanza, alla nuova rivoluzione tecnologica: dalla cibernetica, alla robotica, all’Intelligenza artificiale. Si è cominciato a ragionare, nell’ultimo G20, svoltosi a Rio de Janeiro, della tassazione delle grandi ricchezze, della progressività fiscale come base essenziale della giustizia e della coesione sociale che possono ridare base etica alla cooperazione multilaterale. Giustizia climatica, verso le future generazioni, e giustizia sociale, per le generazioni attuali, appaiono inseparabili. Speriamo che per le nuove generazioni divengano un solo, grande, riferimento.
Giacomo Porrazzini