L’araba fenice è quell’uccello leggendario presente in molti miti dei popoli antichi che, dopo la morte, risorge dalle proprie ceneri. Anche se la narrazione varia a seconda del contesto geografico, storico e culturale, resta evidente il significato: essa simboleggia la morte e la resurrezione.
Ma c’è qualcosa di più: proprio il fatto che essa “risorga dalle proprie ceneri” indica la capacità di ritornare a vivere facendo leva sulle proprie risorse e sulla propria volontà divenuta più forte di fronte alla tempesta degli eventi.
Questo mito dell’araba fenice lo ritengo una metafora per i tempi che stiamo vivendo: dalle ceneri lasciate dal coronavirus possiamo risorgere a nuova vita.
Io non so quando potremo tornare a vita normale: sicuramente non sarà facile e ci vorrà molto tempo. Inoltre questa catastrofe pandemica farà ancora molte vittime e, soprattutto, lascerà un’economia a pezzi e un forte aumento della povertà.
Il come eravamo sarà impossibile e il domani sarà comunque diverso.
Paradossalmente questa pandemia, questa catastrofe epocale, può diventare l’occasione per ripensare e ridisegnare la nostra vita, i nostri rapporti personali, il nostro lavoro, ritrovare il senso della comunità, ritrovare e sviluppare valori umani come quelli della solidarietà e della convivenza.
Si può ridisegnare la nostra città perché divenga più bella, intelligente -si definisce smart- funzionale, efficiente, giusta, sostenibile, rigenerata, razionale e creativa.
Si può ridisegnare addirittura il mondo.
Risorgere a nuova vita dicevo, come l’araba fenice.
Si può. Come? Con quali obiettivi?
Sul come dal punto di vista organizzativo si devono impegnare i politici e gli esperti dei vari settori (medicina, scienza, economia, sociologia, operatori culturali) e da loro mi aspetto uno scatto di orgoglio e scelte coraggiose.
Ma ognuno di noi deve fare la sua parte e la cultura, la conoscenza devono essere il motore del cambiamento. Se la cultura e la conoscenza non entrano nella filosofia del cambiamento, non ripartono l’economia, il lavoro, la scuola, le relazioni, l’uomo.
Lasciando da parte le generalizzazioni, vorrei fare queste considerazioni che riguardano la nostra Terni.
Questa è l’occasione per tornare ad essere quella valle incantata che i viaggiatori del Grand Tour descrivevano nei loro diari. È l’occasione per ritrovare la valle di Terni e non la “conca” come spesso viene designata con senso dispregiativo. Quella valle parte integrante della splendida Valnerina che si prolunga fino a Narni e oltre fino a quando il fiume non raggiunge il Tevere. La valle con il suo anfiteatro di monti, con i suoi paesi che occhieggiano tra il verde. La valle ricca di frutti.
È una sfida culturale.
Quello che ci auspichiamo è una grande operazione culturale che valorizzi le eccellenze (naturalistiche, antropiche, storiche), che sappia rapportarsi con il territorio ed entri in simbiosi con esso, che sappia relazionarsi con la sua campagna -bene prezioso e dimenticato- e con i suoi borghi antichi, perché è in questi antichi e piccoli paesi che si riconosce un diverso stile di vita basato su piccole comunità orgogliose, fattive, collaborative. Anche la città, sebbene estesa di gran lunga più dei borghi, può diventare una rete interconnessa di spazi, di piazze, di quartieri, di luoghi dove la comunità si ritrova, lavora, inventa, studia, vive e si reinventa.
Allora ripartiamo e, come l’araba fenice, facciamo risorgere la nostra città e la nostra vita.
Loretta Santini