Evoluzione dell’indifferentismo religioso nel mondo arabo: tra tradizione islamica e nuove tendenze laiche
Una delle conquiste più significative delle democrazie moderne è la laicità dello Stato, principio che sancisce la netta separazione tra le istituzioni pubbliche e le confessioni religiose. In virtù di questo assetto, tutte le iniziative volte al proselitismo spirituale sono rigorosamente circoscritte alla sfera privata e risultano estranee a qualsiasi attività riconducibile ai pubblici poteri.
Di contro, il concetto di laicità è sostanzialmente estraneo alla cultura islamica, dove viene spesso confuso o sovrapposto alla nozione di ateismo. Nei Paesi islamici, infatti, si tende ad attribuire un rilievo esclusivo all’esistenza di una sola vera religione: l’Islam. Non aderire alla fede islamica equivale, nella percezione comune, a non essere credenti, ossia a essere atei. In questo contesto, non esiste una terza via che contempli il rispetto o il riconoscimento di altre fedi religiose. Pertanto, nel mondo arabo, nell’uso quotidiano, il termine infedele — inizialmente impiegato per designare politeisti e pagani — è stato progressivamente esteso anche agli appartenenti ad altre religioni monoteiste, come il Cristianesimo e l’Ebraismo.
La mancata comprensione del principio di laicità nei Paesi arabi può essere interpretata anche come conseguenza dell’assenza, nella storia delle nazioni musulmane, di un movimento filosofico analogo all’Illuminismo europeo. Quest’ultimo fu determinante in Occidente per l’affermazione dei diritti di libertà individuale e collettiva, nonché per la separazione delle leggi civili dai dogmi e dalle prescrizioni religiose. L’Illuminismo enfatizzò la necessità che l’organizzazione politica e sociale si sviluppasse su basi autonome rispetto ai principi confessionali.
L’Islam, invece, ha una forte connotazione politica e ideologica. Non si limita a essere un sistema religioso, ma propone un modello globale di società, fondato sull’adesione a un’etica confessionale quale presupposto dell’ordine civile. Ne deriva un assetto teocratico, in cui il pluralismo religioso non è solo considerato estraneo, ma anche potenzialmente destabilizzante. Nei regimi teocratici, infatti, la libertà religiosa è percepita come un possibile strumento di eversione, poiché è in grado di minare l’unità ideologica e il consenso basato sulla legge coranica. Non ci sono spazi di libertà e di democrazia di tipo occidentale: l’unica fonte riconosciuta di legittimità è il rigoroso rispetto delle prescrizioni della Sharia, la legge divina rivelata.
Quando la fede religiosa si configura come ideologia totalizzante, il tradizionale proselitismo si trasforma in militanza. I fedeli non si limitano alla propaganda del proprio credo, ma si impegnano collettivamente per l’instaurazione di un ordine sociale ispirato ai principi dell’Islam, ovvero di un ordinamento in cui le leggi civili sono progressivamente sostituite da un sistema normativo modellato su regole confessionali.
Anche nei Paesi a maggioranza islamica che hanno intrapreso percorsi di democratizzazione e tentativi di avvicinamento ai modelli occidentali di laicità — come, ad esempio, la Tunisia — il Corano continua a rappresentare un riferimento essenziale e insostituibile. In questi ordinamenti, spesso esistono dispositivi istituzionali, espliciti o impliciti, che impediscono alla vita civile di articolarsi in forme autonome o, peggio, in contrasto con i principi fondamentali dell’Islam.
Negli ultimi anni, tuttavia, si registrano alcuni segnali di timido cambiamento. Secondo una ricerca condotta da Arab Barometer — uno dei principali network di rilevazione, analisi e monitoraggio degli orientamenti dell’opinione pubblica e delle dinamiche sociali nel mondo arabo — si assiste a una lenta crescita di atteggiamenti di indifferentismo religioso, in particolare tra le giovani generazioni. Questo fenomeno sembra essere alimentato da un diffuso desiderio di autenticità e coerenza personale, che si traduce in una critica, seppur cauta, alle componenti formali e dottrinali della religione, e in un rifiuto dell’adesione meramente esteriore e legalistica.
Secondo l’ultimo sondaggio effettuato (2019), la percentuale di arabi che si dichiarano non religiosi è passata dall’8% del 2013 al 13%. Sebbene il numero resti contenuto, la crescita appare significativa, se si considera che tale incremento si è verificato in un periodo storicamente caratterizzato da un cosiddetto risveglio islamico.
Analizzando più nel dettaglio, l’aumento più rilevante di atteggiamenti riconducibili a una forma di laicità moderata si è registrato in Tunisia, dove la percentuale dei non religiosi è salita dal 16% al 35%. Seguono la Libia (dall’11% al 25%), l’Algeria (dall’8% al 13%), il Marocco (dal 4% al 12%) e l’Egitto (dal 3% al 12%). È interessante notare che le statistiche non specificano quali religioni abbiano subito una diminuzione degli aderenti; tuttavia, considerando la scarsa incidenza di minoranze cristiane o di altre fedi nei Paesi presi in esame, si può ragionevolmente dedurre che il calo riguardi prevalentemente l’Islam.
Gli studiosi restano divisi nell’individuare le cause precise di questa evoluzione: le realtà politiche e sociali dei Paesi arabi presentano, infatti, profonde differenze che rendono difficile una lettura univoca del fenomeno. Ciò che appare certo è che il terrorismo di matrice islamica non sembra aver influenzato in modo diretto questo processo. Piuttosto, assumono un ruolo centrale le motivazioni personali, legate a crisi religiose individuali, che spingono molti a interrogarsi sul proprio rapporto con la fede.
Questi segnali, seppur timidi e frammentari, avvicinano in parte il mondo arabo a dinamiche già osservate nelle società occidentali, dove la secolarizzazione e l’indifferentismo religioso sono ormai fenomeni consolidati.
Roberto Rapaccini