La trasformazione delle tecniche di coltivazione della vite nelle colline umbre

Coltivazione della vite

La trasformazione delle tecniche di coltivazione della vite nelle colline umbre

Storicamente, nelle colline umbre le viti erano state sempre coltivate singolarmente, “maritate” con un albero, che al bisogno, d’estate, poteva essere defogliato per alimentare il bestiame (vedi articolo del dicembre 2023), e dove potevano aggrapparsi senza bisogno di ulteriori pali o frasche.

Era un sistema semplice, che comportava un investimento di tempo solo per la potatura di febbraio-marzo, quando venivano accorciati drasticamente i tralci della vite e tagliati tutti i rametti che l’albero aveva prodotto in quell’anno e che erano già stati defogliati in estate.

Raccolte tutte le ramaglie in fascine, legate con le pieghevoli e resistenti salicacee (lu sargiu), venivano portate nei pressi dell’abitazione del contadino e messe nel fascinaio davanti al forno, perché sarebbero servite per scaldarlo e quindi cuocervi il pane o altro.

Se le fascine fossero state composte solo dei tralci delle viti, avrebbero assunto il nome di fascine di saraminti (sarmenti), meno utili perché poco energetiche.

Col passare degli anni, appena tagliata l’erba medica, la lupinella o il trifoglio, i contadini si erano ingegnati ad annaffiare il prato che ricresceva di nuovo in breve tempo, cosicché il numero dei tagli di fieno in aumento comportavano una maggiore produzione e rendevano inutili le foglie degli alberi “maritati” con le viti.

Inoltre, questi alberi, oltre a sorreggere la vite, con le loro radici rubavano parte delle sostanze del concime stallatico che veniva messo alla base della vite, perché producessero più grappoli e quindi più vino. Poi facevano anche molta ombra e nel terreno sotto questi alberi crescevano a stento le piante che vi venivano seminate, come fave, granturco e altro.

Allora piano piano questi alberi cominciarono a sparire dai terreni. Col tempo adatto, l’albero veniva tagliato alla base con una grande sega, detta segone, tirata da due persone, una da una parte e una dall’altra.

Poi veniva fatta una buca profonda una trentina di centimetri tutto intorno alla base dell’albero tagliato, scoprendone le radici che venivano tagliate anch’esse per non farlo ricrescere.

Contemporaneamente bisognava preparare i pali per sostenere la vite, pali che venivano tagliati dai boschi di castagno perché il castagno è molto resistente al marciume e quindi durava diversi anni.

Infilare nel terreno almeno tre pali incrociati e legarli con un robusto ramo di salice (lu sargiu) richiede molto lavoro la prima volta, per dare sostegno alla vite al posto dell’albero tagliato.

Quindi le viti rimanevano sempre coltivate singolarmente senza l’ingombrante albero e i terreni risultavano più liberi e assolati e quindi più produttivi.

Col tempo venne l’esigenza di mettere le viti in fila tutte insieme e di dedicare a queste piante un terreno collinare assolato e più adatto al loro sviluppo: nacque allora la vigna. Si scavava una lunga buca, profonda una cinquantina di centimetri e trasversale alla pendenza del terreno.

Si infilava nella buca un grosso palo di castagno all’inizio e uno alla fine e si collegavano tra loro con dei robusti fili di ferro. Si mettevano poi altri pali meno robusti a intervalli regolari e a ogni metro circa si collocava una vite, riempiendo poi la buca con la stessa terra scavata.

In questo modo era più facile potare le viti: bastava tagliare il tralcio a una trentina di centimetri dal tronco della vite, piegarlo ad archetto sopra i fili di ferro e legarlo col filo del salice. Così sull’archetto sarebbero nati a primavera pochi nuovi tralci con un numero limitato di grappoli d’uva per non far soffrire troppo la pianta che doveva alimentarli, farli crescere e maturare.

Se il padrone della vigna avesse detto a gennaio al suo contadino che quello sarebbe stato l’ultimo anno di lavoro, perché l’anno successivo la vigna sarebbe tornata a lui, il contadino l’avrebbe potata in modo diverso. Avrebbe fatto gli archetti molto più lunghi, in modo da produrre più grappoli e quindi più vino anche per sé, fregandosene della sofferenza delle piante e di chi dopo le avrebbe prese in carico diventate macilente e difficilmente produttive.

Potare “a padrone” questo vuol dire: fare gli interessi del padrone del momento fregandosene del futuro delle piante.

Vittorio Greghi