LA STRISCIA DI GAZA

TERRA DI TUTTI E DI NESSUNO

In questi giorni la Striscia di Gaza è drammaticamente al centro dell’attenzione mondiale. Per meglio comprendere i fatti attuali è necessaria una ricostruzione storica della questione.

Già alcuni anni fa (2018-2019) la Striscia di Gaza fu teatro di disordini e proteste represse con violenza dall’esercito israeliano.

Furono uccisi alcuni manifestanti, mentre qualche migliaio furono feriti. L’esercito israeliano allora giustificò la sua reazione affermando di aver sparato solo contro chi cercava di attraversare il confine fra la Striscia e il resto del territorio israeliano. Queste
giustificazioni furono ritenute mendaci dall’Autorità Palestinese che chiese che il rappresentante della Palestina all’ONU, quelli dei Paesi della Lega Araba, quello dell’Unione Europea intraprendessero iniziative per fermare le violenze israeliane.

La Striscia di Gaza è una piccola frazione di territorio della Palestina (di circa 360 kmq con una popolazione di meno di 2 milioni di abitanti di etnia araba, cioè composta soprattutto da rifugiati fuggiti dalle loro case durante la prima guerra arabo-palestinese del 1948, e dai
loro discendenti).

Una premessa terminologica convenzionale: il termine ‘arabo’ può essere usato come sinonimo di ‘palestinese’; i Palestinesi, infatti, non hanno una specifica connotazione etnica, ma sono il popolo di lingua e cultura araba e di religione musulmana che vive in Palestina.

Nel XIV secolo la regione di Gaza cadde sotto l’influenza dell’Impero Ottomano integrando la cosiddetta Grande Siria insieme all’attuale Siria e a buona parte del Libano.

Dopo la Prima Guerra Mondiale Gaza divenne destinataria del mandato britannico insieme alla Palestina. Successivamente alla guerra araboisraeliana del 1948, caratterizzata dallo scontro fra la componente ebraica e quella araba, la Cisgiordania e Gaza, grazie al supporto militare di alcuni Paesi arabi solidali nel tentativo di ostacolare la nascita dello Stato
d’Israele, passarono sotto l’amministrazione egiziana per poi tornare ad essere territori israeliani a seguito della guerra dei sei giorni del 1967.

Con il Trattato di pace del 1979 con l’Egitto, a seguito degli accordi di Camp David, gli israeliani restituirono il Sinai all’Egitto ma non i territori di Gaza, essendo cominciati nel frattempo gli insediamenti coloniali in quella zona.

Dopo le intese di Oslo del ’93, Israele riconobbe a Gaza il diritto di autogovernarsi: le forze militari israeliane si ritirarono, mentre il leader dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat stabilì a Gaza City il centro politico della regione.

Seguirono negoziazioni per definire più chiaramente lo status permanente di questa area, che avrebbe dovuto seguire le sorti della West Bank (la Cisgiordania). Queste intese si interruppero nel 2000 con la Prima Intifada. Dopo la morte di Arafat e l’elezione, come presidente della Palestina, di Mahmoud Abbas, capo di Al Fatah (il movimento di liberazione palestinese), la situazione sembrava avviata verso una stabile normalizzazione; emersero prospettive di pacificazione fra le due etnie, quella araba e quella ebrea.

Nel 2005 Israele decise unilateralmente l’evacuazione della popolazione israeliana dalla Striscia di Gaza. Ne mantenne tuttavia il controllo del traffico marittimo e dei confini; in proposito l’economia della Striscia da allora è fortemente condizionata dal blocco israeliano delle sue frontiere terrestri e marittime.

Nel 2006 esponenti politici legati ad Hamas – il movimento di resistenza islamica, braccio operativo dei Fratelli Musulmani per contrastare Israele – vinsero le elezioni palestinesi e inviarono rappresentanti a Gaza, che poterono insediarsi nelle istituzioni governative e militari. Gaza divenne una delle principali basi operative di Hamas, anche per iniziative terroristiche.

Gli equilibri instabili fra i due movimenti palestinesi Al Fatah e Hamas crearono contrasti, che sfociarono anche in scontri violenti. L’ascesa di Hamas qualche decennio prima probabilmente fu favorita anche dai servizi di sicurezza israeliani, che avevano intuito che Hamas, movimento fondamentalista sunnita, per le sue posizioni radicali prima o poi sarebbe entrato in collisione con il più laico e moderato Al Fatah, e questo avrebbe indebolito la società palestinese. Tuttavia, gli israeliani non avevano previsto che Hamas sarebbe diventata una delle più gravi minacce per Israele.

Nel 2011 Hamas e Al Fatah si accordarono per unificare le sorti di Gaza a quelle
di tutta la Cisgiordania. Dal 2012 fu ribadito il potere dell’Autorità Palestinese sulla Striscia e sulla West Bank. Il governo israeliano, tuttavia, ne mantenne un indiretto controllo, che si concretava in ingerenze e interferenze nell’amministrazione palestinese. Questo procurò gravi situazioni conflittuali con la comunità arabo palestinese, che probabilmente sono alla base – ma non giustificano – l’attuale drammatica deriva violenta.

Com’è noto, infatti, il 7 ottobre u. s. Hamas dalla Striscia di Gaza ha intrapreso un grave attacco contro Israele, anche con incursioni via terra, che avrebbe causato la morte di oltre un migliaio di persone e la cattura di centinaia di ostaggi civili israeliani. Le Forze di difesa israeliane hanno risposto con attacchi aerei e avviato un’operazione di terra nella Striscia di Gaza. Ora la guerra sembra non avere più fine.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che il Paese è in guerra e che “il nemico pagherà un prezzo altissimo”.
La situazione è in continua drammatica evoluzione.

Allo stato attuale è impossibile prevedere l’esito del conflitto. Dal punto di vista strategico, la guerra ha messo in discussione molti presupposti errati delle politiche di difesa di Israele, tra cui la presunta infallibilità del suo apparato di intelligence e la capacità di rispondere rapidamente ad attacchi nemici. Il fallimento coinvolge anche la strategia della deterrenza dello Stato ebraico.

Purtroppo, sembrano definitivamente infrante le speranze che con gli accordi di Abramo (una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti del 2020) si potesse creare un nuovo Medio Oriente fondato sulla cooperazione economica e non sulla violenza.

Roberto Rapaccini