LA SCINTILÈNA

Nei soliti anni ’50-’60 del secolo scorso la corrente elettrica in una parte delle campagne umbre non c’era ancora arrivata. In ogni casa contadina illuminata dalla luce elettrica si teneva sempre una scorta di lumi a olio e candele steariche perché bastava una pioggia improvvisa o un soffio di vento più forte del solito per rimanere al buio.

Se la memoria non ci inganna lo stesso barone Franchetti era stato costretto a mettere un motore diesel molto potente nella località detta Pompa dell’Acqua, per pompare l’acqua potabile dalla sorgente naturale in basso fino alla Villa che aveva fatto costruire molto più in alto.

In mancanza di linea elettrica il motore diesel faceva funzionare le pompe che portavano l’acqua in una cisterna dove poi per caduta alimentava tutti i piani della signorile abitazione e le case dei guardiani. Siccome c’era ancora l’abitudine della transumanza (vedi mio articolo su La Pagina del giugno 2017) le sere d’estate nelle zone non raggiunte dall’energia elettrica dovevano essere illuminate con i lumi ad olio o con la più moderna scintilèna.

La lampada ad acetilene (ecco da dove viene il nome!) è composta da due contenitori sovrapposti: in quello inferiore viene messo il carburo di calcio, in quello superiore l›acqua. L’acqua, attraverso un foro regolato da una vite, cola a gocce sul carburo innescando la reazione chimica che genera l’acetilene, gas facilmente infiammabile.

Alcuni ragazzi dell’epoca avevano imparato a maneggiare il carburo di calcio. In che modo? Nella zona di Campomicciolo era in costruzione una galleria e finito il turno di notte alle 6 del mattino gli operai uscivano insieme ai carrelli pieni di terra e vuotavano la cenere dai lumi a carburo che avevano usati durante la notte. Tra le cenere c’era sempre qualche bel pezzo di carburo che veniva usato per lanciare in cielo, con grossi rischi, i barattoli di latta.

Come si faceva? Si prendeva un barattolo, se ne bucava il fondo con un chiodo poi si metteva un pezzo di carburo nell’acqua piovana che si era raccolta in un letamaio e immediatamente sopra al carburo che sfrigolava si metteva il barattolo per cappello.
Si avvicinava poi un fiammifero acceso al buco da dove stava uscendo il gas acetilene che esplodendo sparava in cielo il barattolo. Veniva chiamato il gioco dello Sputnik che, pur essendo pericolosissimo, non aveva mai provocato danni per mera fortuna. Ma appena le mamme se ne accorsero il pericolo venne dalle bacchette di olmo pronte per arrossare la pelle delle gambe degli sconsiderati ragazzi. Vista la pericolosità del carburo la preparazione del lume era fatta dagli adulti più responsabili e una volta acceso erano tutti contenti nel vedere la bella fiamma molto più luminosa di quella del lume a olio. Ogni innovazione, oltre a presentare nuovi pericoli, porta anche a degli inconvenienti che bisognava imparare a correggere.

Se per esempio si fosse svitata troppo la vite che regolava la caduta delle gocce d’acqua sul carburo, si sarebbe potuta formare troppa cenere che, trascinata dal gas, poteva ostruire il cannello spegnendo la fiamma. Allora bisognava chiudere l’acqua, trovare un pezzetto di filo elettrico sottile come un capello e con esso tentare di ripulire dalla cenere i sottilissimi fori dell’ugello attraverso i quali doveva passare l’acetilene ma non la cenere. Vi lascio immaginare le parolacce che venivano dette da chi doveva compiere questo lavoro alla fioca luce del lume ad olio, stanco morto dopo una giornata di fatica passata a mietere il grano a mano con la falce. Il passato potrà sembrare ai giovani molto romantico ma possiamo garantire che in quei tempi nessuno soffriva di inappetenza e di insonnia.

Vittorio Grechi