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LA PIETANZA INDIGESTA

C’è una pietanza, da sempre, difficilmente digeribile, sia per i governanti, sia per i governati: la pietanza delle tasse.

La nostra bella Costituzione del 1948, figlia della lotta per la libertà e frutto della convinzione che, la stessa libertà, debba poggiare sulla equità e sulla coesione sociale, afferma un principio, semplice da condividere, quanto complicato da realizzare, in norme precise ed in comportamenti coerenti: il principio della progressività fiscale ; chi ha maggiori ricchezze è chiamato a contribuire un po’ di più alla raccolta delle risorse pubbliche necessarie per tenere in piedi lo Stato e farlo funzionare in modo efficace, in tutte le sue articolazioni, e assicurare alla popolazione i servizi essenziali; dalla sanità, alle altre prestazioni sociali, comprese le pensioni, all’istruzione dei giovani, ai trasporti, alla sicurezza delle comunità e dell’ambiente in cui vivere.

Se le risorse da ricavare, con le tasse “giuste”, non bastano, perché si racconta al popolo che nessuno dei governanti di turno gli vuole “mettere loro le mani in tasca”, allora si ricorre, da gran tempo, al debito pubblico. Lo Stato che, attualmente, incassa, ogni anno, circa 570 miliardi di euro, con le varie tassazioni, sembra incapace di eliminare una evasione fiscale da 100 miliardi all’anno e, così, ha accumulato ormai, 3.000 miliardi di euro di debito pubblico, a fronte di un ammontare complessivo della ricchezza privata che ha superato gli 11.000 miliardi. Uno dei più alti debiti del mondo, per testa di abitante.

Sì può ancora spingere il piede sull’acceleratore del debito pubblico? Sembra proprio di no. Ce lo impediscono, non solo, il rispetto del nuovo Patto fiscale europeo, ma anche, il modo con cui mercato ed investitori reagirebbero ad un ulteriore aumento del debito e le conseguentiì “sentenze” delle società di Rating che, con i propri voti, possono far fallire un paese in poco tempo. Inoltre, poiché saranno le future generazioni a dover onorare e rimborsare le rate del debito, non è ulteriormente accettabile che chi governa oggi e chi vive oggi scarichi sui posteri un peso finanziario che rischia di ingabbiare qualsiasi disegno futuro di sviluppo economico e sociale, qualunque progetto di salvataggio ambientale e percorso di transizione ecologica, verso la sostenibilità. Insomma, oltre ad una crisi ecologica, evidenziata, ogni giorno, da alluvioni, uragani e siccità, ghiacciai eterni che si sciolgono e mari che salgono e si scaldano, rischiamo di lasciare ai giovani e giovanissimi anche troppi “buffi” da pagare.

È ben vero che Woody Allen, in un suo film famoso, fa dire, ironicamente, ad un anziano che non c’è da preoccuparsi per i posteri perché loro non hanno fatto niente per noi, ma, se vogliamo, per un momento, uscire dal guscio del nostro individualismo egoista e riscoprirci “comunità di destini”, l’attenzione a cosa stiamo apparecchiando per figli nipoti e pronipoti, dovrebbe essere assai grande e le scelte da compiere ora, coerenti con essa. Sì dirà, la progressività dei carichi fiscali va bene, in linea di principio, ma dove sono soldi e ricchezze da tassare in modo differenziato?

E poi, ma non ci avevano raccontato che la tassa del futuro, la più giusta e più bella è una “flat tax”, al 15% per tutti, miliardari o precari a contratto trimestrale che siano? Per rendersi conto dell’assurdità di tale proposta basti pensare a quel che è la distribuzione della ricchezza, il suo andamento e la sua clamorosa concentrazione, negli ultimi anni. La ricchezza è concentrata in poche mani: Il 10% più ricco della popolazione detiene circa il 60% della ricchezza totale del Paese, pari a 6.600 miliardi, mentre il 50% meno ricco possiede solo il 10% del totale, cioè 1.100 miliardi. Dove sia la reale base imponibile del paese, patrimoniale e reddituale, è chiaro a tutti coloro che vogliano vederla. Tanto più se si guarda al suo andamento: nel 2000 il 10% più ricco possedeva “solo” il 44% della ricchezza totale del paese.

Perciò, in poco più di 20 anni, circa 1.800 miliardi sono passati dalle tasche del 90% dei contribuenti italiani a quelle, già ben fornite, del 10% più ricco. Una riforma fiscale vera, nel segno della progressività ed equità, potrebbe, ragionevolmente, redistribuire, tramite il finanziamento di servizi pubblici, come sanità, scuola e traporti, o pensioni minime, o salario minimo, e aliquote fiscali più progressive, questo grande trasferimento di ricchezza dai meno abbienti ai più ricchi. Vi sono, oggi, enormi problemi aperti avanti alla comunità, al suo equlibrio interno ed ai suoi destini, come la transizione ecologica, per fronteggiare la crisi climatica in atto, o come la riduzione delle disuguaglianze e la tutela dei fragili della società, per ridurre le sofferenze e tutelare la democrazia, dalla disillusione di tanti cittadini; problemi che richiedono investimenti e spesa corrente di dimensioni ingenti e che non possono essere fatti, ricorrendo ad ulteriore debito pubblico.

Anche a livello internazionale si sta aprendo una discussione sulla necessità della tassazione equa delle grandi ricchezze. Tanto più, per la nostra situazione, deve riaprirsi in Italia; siano esse le Big Tech, come Amazon, Google, Apple, Microsoft, TIK TOK o X (ex Twitter), ed altri ancora, che fanno profitti da noi; siano essi il milione e mezzo di milionari italiani e i 70 miliardari del nostro paese.

È oramai tempo di non fidarsi di chi, nel panorama politico, dice che non vuole aumentare le tasse.
In realtà non le vuole redistribuire tra chi le può pagare senza che gli cambi la vita e chi può avere una vita un po’ meno grama se lo Stato, con le tasse sulle grandi ricchezze dei pochi che hanno tanto, riesce ad aiutarlo a superare le sue difficoltà, per essere incluso in un percorso di crescita di tutti, anche, per poter pagare, domani, le sue tasse.

Giacomo Porrazzini

Redazione:
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