LA LUNGA STORIA DELLA MERANGOLA

Tra i tanti frutti che la terra ci offre da millenni ce ne sono alcuni che stupiscono più di altri per la loro forma, il loro sapore, colore e la storia che ci sanno raccontare.

E’ questo il caso del misconosciuto “arancio amaro” della Valnerina chiamato volgarmente Melangolo o Merangolo.

Il Melangolo, Citrus aurantium, viene scientificamente riconosciuto come un incrocio di Citrus maxima (pomelo) e Citrus reticulata (Mandarancio) appartenente al genere Citrus, che raggruppa gli agrumi. Un arbusto o piccolo albero, molto ramificato, con chioma rotondeggiante. Le foglie, di colore verde intenso, hanno la forma ellittica e si divaricano, in prossimità dell’intersezione con il picciolo, in due ali opposte rispetto alla nervatura centrale. I fiori, bianchi, sono molto profumati. I frutti, di colore giallo-arancio vivo, rotondeggianti, hanno la buccia rugosa e “sbruzzolosa” come si dice in dialetto. Il succo è molto aspro e amarognolo.

Non è chiaro come sia giunto qui dall’estremo Oriente (la patria degli agrumi) dove si pensa sia originario e molte sono le ipotesi su come sia giunto in particolare in Italia.

C’è chi associa il suo arrivo in Italia in concomitanza con i tanti prodotti giunti grazie alle rotte commerciali romane o chi invece attribuisce il suo arrivo ai crociati di ritorno dalla Terra Santa.

Per quello che concerne la valnerina è più lecito ipotizzare l’arrivo di questa pianta con i grandi padri del cristianesimo ovvero gli eremiti siriaci che colonizzarono la zona tra il IV e il VI sec. d.C.

E’ risaputo infatti che questi eremiti, di eccezionale elevazione culturale, giunsero in valnerina portando con loro tutte quelle conoscenze scientifiche (dalla medicina alla botanica) che in Occidente erano andate perdute a seguito delle “invasioni barbariche” .

Questi santi eremiti furono coloro che fondarono le prime comunità di monaci dando vita poi a quelle che saranno le grandi abbazie medievali, fondamentali centri culturali e di sviluppo economico della valle del Nera.

Sempre a loro, ad esempio, viene attribuito l’arrivo in valnerna del pino d’Aleppo “pinus Halepensis”, utilizzato per i lavori di bonifica effettuati lungo il corso del fiume Nera nell’alto medioevo, così come ci viene narrato nelle vicende dei santi Felice e Mauro fondatori dell’abbazia omonima nei pressi di Castel San Felice di Santa Anatolia di Narco.

Se invece ci spostiamo molto più avanti nel tempo, la tradizione vuole che la pianta di Melangolo sia il simbolo delle Mole dell’Olio, poiché secondo l’usanza dei “mulinari” della valnerina, il succo di questo frutto veniva usato per condire la bruschetta che si faceva con l’olio novello.

E’ per questo motivo che di fronte o nei pressi dei tanti frantoi della zona si trovava sempre una pianta di Melangolo, tanto che gli stessi viandanti (o meglio commercianti di olio) capivano dove erano le mole in base a dove si vedevano queste piante così appariscenti.

Nel tempo poi, come tristemente constatiamo ogni giorno, queste usanze sono decadute e in particolare i frantoi hanno subito enormi modifiche anche nell’assetto strutturale ed infatti, quando si decideva di ampliare il frantoio, queste piante erano le prime ad essere sacrificate poiché messe a dimora vicini ai muri perimetrali degli opifici per essere riparate dai venti freddi invernali.

Tutto ciò ha portato a un lento e inesorabile oblio per questa importantissima pianta che già dal secondo dopo guerra comincia a non essere più utilizzata dai soliti consumatori e soprattutto non è conosciuta dalle nuove generazioni.

Ad oggi, secondo i recenti studi realizzati dal Parco Tecnologico e Agroalimentare dell’Umbria e dal C.N.R. di Perugia, resistono in Umbria solo pochi esemplari.

E’ per questi motivi che fino a pochi anni fa si erano quasi perdute per sempre le tracce di questa mirabolante pianta e che oggi invece è stata riscoperta grazie ai tanti professionisti che si occupano di ricercare e riscoprire quanto si va perdendo nel campo delle Biodiversità.

La ricerca relativa al Melangolo è iniziata infatti nel 2012, con la pubblicazione di uno studio d’archivio edito dalla Provincia di Terni “L’occhio ammira e resta incantato” a cura di Isabella dalla Ragione e Enrico Maccaglia, nella quale vengono riportate varie fonti di archivio che citano questo frutto nei pressi della città di Terni….!

Sebastiano Torlini