LA CRISI DEL PACIFISMO

All’inizio del 2024, i conflitti nel mondo erano cinquantacinque, il numero più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Molti leader nazionali continuano a preferire l’uso delle armi per perseguire i propri interessi, siano essi politici o personali.

Le regioni del Medio Oriente e del Nord Africa sono le meno pacifiche, con scontri suscettibili di esiti imprevedibili. Diversamente, nel corso della seconda metà del secolo scorso guerre importanti come quelle in Vietnam e in Corea si risolsero seguendo correttamente le prassi indicate dal Diritto Internazionale, ovvero mediante accordi preceduti da un cessate il fuoco. Già nel 1991 il crollo dell’Unione Sovietica ebbe un effetto destabilizzante, perché fece emergere tensioni latenti tra gruppi, Paesi e fazioni, o ostilità che, pur essendo potenzialmente esplosive, erano state temporaneamente congelate o tenute sotto controllo dall’equilibrio fra le due Superpotenze e da circostanze esterne. Pertanto, ci fu una pericolosa recrudescenza di guerre interne e transnazionali. Ad esempio, le guerre nei Balcani, il genocidio in Ruanda, il conflitto in Cecenia, varie guerre civili in Africa. In questo secolo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle a New York rappresentò un ulteriore punto di svolta significativo nei contrasti transnazionali, dando inizio alle guerre in Afghanistan e in Iraq, che favorirono una ripresa generale di ostilità su larga scala. Gli sforzi diplomatici e le iniziative delle organizzazioni internazionali furono e continuano a dimostrarsi inefficaci. L’attuale situazione viene anche definita Terza Guerra Mondiale per descrivere una serie di conflitti e crisi che coinvolgono molteplici attori su scala globale.

L’incapacità di far cessare le guerre in corso, dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Sudan all’Etiopia, dall’Azerbaijan all’Armenia, è dovuta innanzitutto all’incapacità dell’Onu – creata nel 1945 con l’intento di comporre i contrasti fra gli Stati – di imporre decisioni efficaci. Sono stati ottenuti solo modesti risultati umanitari come scambi di prigionieri e distribuzione di aiuti. Durante la Seconda Guerra Mondiale, le vittime civili furono quasi il doppio rispetto ai caduti tra i militari: circa 24 milioni di soldati e oltre 40 milioni di civili persero la vita. La guerra coinvolse infatti non solo i soldati, ma anche città e abitazioni, trasformando tutto in un unico teatro di distruzione.

Da allora, la situazione è peggiorata ulteriormente. Ad esempio, l’obiettivo del pogrom di Hamas non è solo l’esercito israeliano, ma il popolo ebraico. La risposta militare israeliana a Gaza ha provocato più di 35.000 morti (secondo fonti palestinesi), per la maggior parte civili, coinvolti in un conflitto che non risparmia nessuno. Infatti, il concetto tradizionale di campo di battaglia è scomparso. A Gaza, la popolazione vive ammassata ed è quindi facilmente vulnerabile. Il campo di battaglia può essere una cucina a Gaza, un kibbutz in Israele, una fermata dell’autobus o un mercato in Ucraina. Chiunque, anche se non indossa una divisa o non ha mai dichiarato guerra, può diventare un bersaglio, persino un bambino. Nonostante l’esistenza del diritto internazionale e del diritto bellico, spesso le norme restano inapplicate.

Lo slogan delle proteste in Occidente contro i massacri è proteggere la popolazione civile. Le manifestazioni per avere seguito richiedono una presa di posizione, che spesso ha connotati fortemente polarizzati ideologicamente. Le manifestazioni, pertanto, anziché unire tutti per il conseguimento di una pace giusta, finiscono per avere effetti divisivi. Un importante progresso della nostra civiltà è stato il riconoscimento dei diritti fondamentali per tutti gli esseri umani, senza distinzione. In un conflitto, i diritti di chi si ritiene abbia ragione dovrebbero essere gli stessi di chi si ritiene abbia torto. Tuttavia, la realtà è che la guerra non riesce a rispettare nemmeno le norme più elementari che dovrebbero regolarla.

Roberto Rapaccini