LA CONCLUSIONE DEL CONFLITTO FRA HAMAS E ISRAELE
La possibile estensione dell’attuale conflitto fra Hamas e Israele ne rende incerti gli sviluppi.
L’attacco di Hamas, pur rappresentando un fatto molto grave, non ha le potenzialità per
mettere in discussione l’esistenza di Israele: tuttavia la reazione dell’esercito israeliano è stata particolarmente veemente come se fosse stata realmente in pericolo la sopravvivenza dello Stato, per la probabile sopraggiunta strategia governativa di approfittare di questa guerra per tentare di risolvere definitivamente il problema palestinese, attraverso la possibilità di assumere il pieno controllo di tutto lo spazio fra il Giordano e il
Mediterraneo.
Negli ambienti politici si è parlato sempre più spesso di vittoria decisiva (al riguardo Netanyahu ha più volte affermato che la guerra avrà fine solo con l’eliminazione di Hamas); se fosse così, questa tragedia potrebbe protrarsi nel tempo.
Non possono escludersi iniziative prodromiche all’annessione della Cisgiordania, di cui si parla troppo poco, ma che invece è un territorio la cui condizione è una questione molto sensibile per la destra israeliana. Fino al 6 ottobre 2023 Israele aveva accettato senza riserve il controllo da parte di Hamas della Striscia di Gaza per uno specifico obiettivo: considerate le divisioni e gli antagonismi all’interno del fronte palestinese, supportare Hamas equivaleva a favorire la delegittimazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Sconfiggere militarmente Hamas è possibile, ma è molto difficile eliminarlo dalla Striscia di Gaza e neutralizzare la resistenza palestinese. Vinto il conflitto, Israele dovrebbe poi controllare un territorio con due milioni di palestinesi. Privare la Striscia di Gaza di acqua, di elettricità, di servizi e di strutture abitabili, come sta facendo Israele, forse è un tentativo crudele, non solo per fiaccare la resistenza, ma anche per favorire l’esodo di civili rendendo il territorio invivibile.
Ma i profughi di questo drammatico scenario verso quali Paesi potrebbero dirigersi? In Egitto sarebbe di ostacolo l’eventualità che la presenza di palestinesi possa potenziare i Fratelli Mussulmani, di cui Hamas è una filiazione. Anche la Giordania non è una destinazione possibile. La diaspora palestinese inoltre è pericolosa perché sarebbe terreno fertile per cellule terroristiche antisraeliane che accerchierebbero Israele dall’esterno, supportate da gruppi jihadisti locali. L’altra possibilità è che Israele diventi uno Stato binazionale. L’ipotesi degli Accordi di Oslo sembra quindi definitivamente tramontata.
Un’ultima considerazione: Netanyahu solo uscendo vittorioso dal conflitto può sopravvivere politicamente. Di fronte a questi scenari come reagirebbe la comunità internazionale?
In un saggio del 2017 Aharon Bregman, giornalista israeliano, definì maledetta la vittoria militare di Israele nella decisiva Guerra dei Sei Giorni del 1967. Il conflitto, che fu combattuto fra Israele da una parte, ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra, si concluse con una rapida, umiliante e totale vittoria degli israeliani. Gli esiti di quella guerra furono un punto di svolta nella percezione della questione mediorientale: gli israeliani da vittime accerchiate da minacciose potenze arabe si mostrarono potenti occupanti. Quei drammatici fatti rivelarono che Israele era un potente Golia piuttosto che un piccolo Davide: la diffusa istintiva simpatia di parte del mondo occidentale cessò di essere dalla parte degli israeliani, vittime dell’olocausto nazista e di uno strisciante e ricorrente antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, ovvero gli arabi, principalmente i palestinesi, che avevano subito l’occupazione militare. Per questo il trionfo del 1967 finì per trasformarsi per Israele in una vittoria maledetta. La sconfitta di Hamas nell’attuale conflitto per i possibili scenari finali, per le tante vittime civili, per l’indiscriminata distruzione di abitazioni, per i risvolti di intollerabile crudeltà, potrebbe trasformarsi per Israele in una seconda vittoria maledetta nel senso indicato da Aharon Bregman nel saggio del 2017.
Roberto Rapaccini