È importante ricordare che l’esperienza industriale di Terni non si limita alle acciaierie, o alla produzione dei materiali sintetici, quindi alla Polymer. C’è stato anche il tessile, il lanificio Gruber, che chiuse prima della guerra, quando già la crisi della lana si preannunciava, lana che ora è diventata uno degli scarti più pregiati (perché, per quanto sia, le pecore ci sono sempre), e lo jutificio Centurini, dove si lavorava non soltanto la juta, ma in tempo di guerra anche la ginestra, che era piantata nelle zone appenniniche abruzzesi, ma essendo una fibra meno dura, non si prestava molto ai macchinari utilizzati per la tela di sacco. Anche altre fibre apparvero da Centurini, come l’abaca, o “canapa di Manila” (non è un caso che molte donne si chiamino tuttora col nome della capitale delle Filippine, qui a Terni, scavando tra gli antenati si troverà senz’altro qualche lavoratrice “centurinara”), e la stessa canapa.
Per chi si occupa di fibre naturali, la reintroduzione della canapa è un argomento controverso. È stata la fibra più diffusa in Italia, in certi periodi, come all’epoca dell’autarchia, tra il 1935 ed il 1943, ne è stato anche finanziato lo sviluppo e l’ultimo tentativo di resistenza alle incombenti fibre sintetiche di origine petrolchimica, come nylon e poliestere, e di origine cellulosica, come la viscosa, è stato nei primi anni ’50, quando Totò declamava nei manifesti “tutto di canapa mi voglio vestire”. Poco dopo però c’era Fred Buscaglione, che cantava di “Porfirio Villarosa, che faceva el manoval alla Viscosa”, quindi ancora in quegli anni la partita era aperta. Da allora, la canapa per lunghi anni è scomparsa, e tra informazioni imprecise e preoccupazioni magari pure esagerate, non si è riusciti a darle un reale futuro. Eppure, nelle nostre zone, come trovate espresso con chiarezza nella documentazione e nelle strumentazioni presenti al Museo della Canapa di Sant’Anatolia di Narco, la canapa ha realmente rappresentato un’eccellenza. Coltivata, anche in Valnerina, ai margini dei campi, in quelle strisce di terreno dove l’aratro invertiva la sua corsa, rappresentava una potenzialità aggiunta per un terreno, anche se cresceva isolata per l’odore forte e l’attrattività per gli insetti d’estate.
La canapa beneficiava anche della presenza di luoghi che ne consentivano la macerazione in acqua, i maceri, dove le cosiddette “mannelle” di canapa, cioè piante tagliate e legate tra loro venivano lasciate ad ammorbidirsi per venire poi stigliate, cioè separare la parte più legnosa, il cosiddetto canapulo, da quella più fibrosa, avviata verso il tessile, e nel caso peggiore, disponibile come stoppa.
Oggi come oggi, sarebbe ingenuo pensare, credo, che sia facile ritornare a questo con facilità. Però, per come la vedo, le cose vanno dette. La canapa rappresenta una filiera complessa, che coinvolge gli ambiti del tessile, ma anche dell’alimentare, l’olio di semi di canapa per esempio, col suo sapore forte, in poche gocce insaporisce ed aromatizza certe pietanze, poi ci sono le tisane, la farina, e così via, ed il settore delle costruzioni, coi mattoni di calce e canapa, ma anche con l’utilizzo del canapulo come sostitutivo del truciolare, la cui produzione è andata in crisi per l’aumento dei costi e la diminuzione della disponibilità delle materie prime. Ma gli ambiti sono molti, anche nell’ambito calzaturiero, si sa che una tomaia in canapa è praticamente indistruttibile.
Tanti anni fa, mi sono avvicinato al mondo della canapa attraverso i materiali compositi, dove i tessuti di canapa rappresentano un efficace, anche se differente come morfologia, spessori e caratteristiche, alla difficilmente riciclabile fibra di vetro, all’interno di una “matrice”, come si dice, polimerica, cosa che, dai tempi di Henry Ford, ha destato l’interesse dell’industria automobilistica (l’idea di Ford era quella anche di produrre biocombustibile dall’olio di canapa, per avere una completa “hemp car”). Oggi che si parla molto di materiali sostenibili, questa è una grossa opportunità, non semplice da cogliere, perché il sistema va gestito in termini di economia circolare, quindi senza produrre rifiuti ovvero reintroducendo tutto nell’ambito del sistema produttivo. Ne saremo capaci? Io nutro una certa speranza, le competenze e le volontà le abbiamo, si tratta soltanto di convincersi, e di programmare una strategia a questo scopo.
Carlo Santulli