I MIEI ANTICHI NATALI
Il Natale è la festa più bella dell’anno. Sapore di famiglia, di tradizioni culinarie, calore profuso negli sguardi, nei sorrisi, negli abbracci pieni di sentimento. Almeno così mi sembrava allora.
Ricordo bene i Natali della mia infanzia. Le giornate a preparare il Presepe che risultava sempre un capolavoro. Mai lo stesso, ogni anno diverso, ogni anno più ricco di particolari. Mio zio era l’addetto al lavoro, io la sua aiutante. Ricordo perfettamente la sua abilità nel costruire la cascata, i corsi d’acqua, le case sulle colline, la capanna di Gesù Bambino. Era un bravo elettricista ed ogni anno si inventava nuove luci capaci di rendere magica tutta l’ambientazione. Io ne ero realmente affascinata.
La condivisione di certi momenti rendeva palpabile l’affetto che c’era tra di noi.
L’albero di Natale doveva essere – secondo mia madre – “mangereccio”. Veniva realizzato con mandarini, torroncini piccoli, baci Perugina, qualche piccolo pampepato. Il tutto ornato da nastri colorati. Nessuna luce, invece, per non far rovinare le leccornie appese.
Ricordo anche, però, la sostituzione in parte di questa mercanzia con palle di vetro soffiato a mano, leggerissime e bellissime.
Il funghetto in due parti era la mia passione. Ancora lo conservo, tra i miei ricordi più cari.
L’attesa del Natale aveva anche i suoi momenti dedicati alla cucina. Mia madre, bravissima cuoca, si era specializzata nei pampepati e nella pasta dolce.
La preparazione dei primi era un fatto lungo e laborioso, in quanto venivano rotte le noci, le nocciole, le mandorle. Tutti noi, a casa, insieme, in allegria.
Le noci dovevano essere di Sorrento, non cilene o francesi, come spesso sono quelle di oggi. Saporite, gustose, ma guai a mangiarle, anche un solo gheriglio!
Le urla di mia madre salivano al cielo. Le noci dovevano essere quelle stabilite nella ricetta, non una di meno.
Un ingrediente che riuscivo ad assaggiare, senza essere vista, era il mostocotto, un liquido denso e dolciastro che mi sembrava un elisir di lunga vita.
Buonissimo!
E poi bisognava grattugiare il cioccolato fondente e raccogliere il tutto in una terrina profonda. Si mescolava a lungo, anche con le mani, mentre un profumo speziato si spandeva nella casa. Un dolce antichissimo il nostro pampepato, caro al cuore dei Ternani, che si è gloriato recentemente del marchio
IGP. Meritatamente! La confezione, poi, di questi piccoli dolci natalizi, con il cellophane e nastri colorati,
era l’ultimo atto di questo lavoro.
Metà di questi pampepati venivano regalati ad amici e parenti e tutto ciò rendeva speciale tale momento di festa. Condivisione, affetto, generosità erano gli ingredienti “a latere” del pampepato ternano, il nostro consumismo di allora.
La pasta dolce, che ogni anno allietava le nostre tavole, era al contrario, un fatto molto privato e familiare.
Veniva mangiata nelle più diverse occasioni, a colazione, come dessert la sera, durante le pause delle nostre partite a briscola o a scopa.
Il profumo della cannella e della noce moscata inebriava i nostri cuori e il nostro palato.
“Si fanno cuocere gli stivalozzi, quelli grandi, devono cuocere tanto tanto, cioè spappati” così scriveva mia madre in un suo taccuino di ricette.
“Maritu mia, la vita……è ‘n pampepatu
duu’ noce, ‘n po’ de pepe che ’n fa male,
lu dorge co’ l’amaru…. va dosatu,
come dice quarcunu …. e
Bon Natale!
– Marcello Ghione –
Anna Maria Bartolucci