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IL BRACCIO DI LENIN

L’imprenditore tessile Morozov era l’uomo più ricco della Russia, aveva una moglie che, a sua insaputa, foraggiava i bolscevichi che organizzavano gli scioperi nelle sue fabbriche, mentre lui si era innamorato perdutamente dell’attrice Marija Fëdorovna Andreeva, anch’essa filo bolscevica e compagna dello scrittore Gor’kij. Nel 1905 si sparò un colpo al cuore, si trovava a Cannes, l’anno prima aveva stipulato una polizza sulla vita intestandola alla Andreeva, che incassò senza andare al funerale e passò il malloppo ai compagni; fu un suicidio piuttosto chiacchierato.

A Tvev la fabbrica di Morozov venne riconvertita nel caseggiato Morozovski; nella “caserma 70”, detta “Parigi”, si trova Oleg, è lui ad accompagnare Marzio Mian in questa tappa del reportage Volga blues (Feltrinelli 2024). Oleg non rimpiange il comunismo, crede che la Russia, se non viene guidata da un uomo forte, rischia di sfaldarsi, maledice l’Europa e i gay, mentre affogava la tuska (il malessere) nell’alcool scadente; in questi anni ha tirato avanti rubando cimeli sovietici, entrava e usciva dal carcere, riceveva molte percosse e, quando tornava casa, si rifaceva sulla moglie.

Il nonno di suo nonno trainava a spalla le imbarcazioni sulla riva del fiume, era uno dei burlaki ritratti da Repin nel dipinto I battellieri dei Volga (1873), scendendo lungo le sponde poteva vedere le ville del preside Kerenskij e dell’Ispettore allo Studio Ul’janov; i loro figli si incontrarono a Mosca all’inizio del secolo scorso, il figlio del preside era il capo socialista che depose lo zar e vinse le elezioni, mentre il figlio dell’Ispettore, che si faceva chiamare Lenin, era il capo comunista che perse le elezioni, proclamò la Rivoluzione e cacciò Kerenskij.
La villa del preside fu una delle prime ad essere abbattuta.

Quando Eltsin aprì le porte al liberismo, le città-fabbrica conobbero la fame più nera e le statue di Lenin vennero rabbiosamente abbattute, ma non quella davanti all’ex fabbrica di Tvev, il piccolo padre era pur sempre un figlio del Volga.

Una notte Oleg la fece a pezzi per rivenderla a una fonderia polacca, i concittadini furiosi andarono a prelevarlo a casa, lui negò tutto, ma da sotto al letto spuntava il braccio di Lenin che indicava il Sol dell’avvenire. Rimisero in piedi la statua e Oleg se la vide brutta.

Lenin è un peso nella Russia di Putin, è troppo cerebrale ed europeo per essere semplificato, non si presta a essere trasformato in un mito unitario, al contrario di Stalin che, ripulito dal comunismo, è spacciato come eroe della patria e vera incarnazione dello spirito russo.

“È stato un vincente, per noi giovani è il numero uno”, spiega un ingegnere di 24 anni, “gli aspetti negativi? Bah, quello che conta sono i risultati. Ci sono stati più morti negli anni ‘90 per le guerre criminali e l’alcol. Quella è stata la nostra esperienza di democrazia, il periodo peggiore della nostra Storia”.

Il giornalista riprende il battello che discende il Volga, sul pontile c’è una ragazza, le sorride, lei si toglie la felpa e mostra la t-shirt con la faccia di Stalin, c’è scritto “se ci fossi io…”.

Francesco Patrizi

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