Come passa il tempo…

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Viviamo in un mondo che cambia

Sono trascorsi quasi 2 milioni di anni da quando rinoceronti, pachidermi, iene, tartarughe giganti e felini dai denti a sciabola scorrazzavano per le praterie dell’antica Umbria. Immersi in un ecosistema completamente diverso dall’attuale, prede e predatori rinnovavano quotidianamente l’eterna battaglia per la vita sotto un clima torrido tipico di un ambiente di savana africana. Appena 600.000 anni or sono il Fiume Velino veniva dirottato, dalle potenti forze geologiche, in direzione dell’attuale area de Le Marmore. Qui le sue acque ribollenti sulle impetuose rapide appena formate iniziavano, per la prima volta, a depositare coltri di roccia travertinosa. Queste si accumuleranno nel corso del tempo fino ad erigere un’imponente soglia rocciosa da cui, poi, si getteranno cascate d’acqua sempre più elevate. Solo 100.000 anni fa tribù di uomini di Neanderthal, abilissimi cacciatori, tendevano agguati agli animali al pascolo, sia all’interno della conca ternana che nelle aree limitrofe, al fine di procacciarsi il sufficiente sostentamento alimentare. Tre momenti di “vita quotidiana”, di un territorio caratterizzato da una lunga storia, molto distanti fra di loro ma che, in certo qual modo, ne riassumono l’andamento evolutivo. Prima che noi, uomini anatomicamente moderni, a nostra volta mettessimo piede in questa medesima area geografica.

Ma quanti sono realmente 2 milioni di anni? Come è possibile quantificare un arco di tempo che copre 600.000 anni? Potremmo mai riuscire, in qualche modo, ad avere consapevolezza anche di soli 100.000 anni? Pare proprio di no.
La mente umana sembra strutturata per apprezzare “fette” di tempo confrontabili direttamente con la durata biologica di una vita umana, pari a circa 80 anni. Tanto che quando un individuo raggiunge o supera la soglia dei 100 anni di età puntualmente ci si stupisce della sua longevità.

Quindi, sostanzialmente, la realtà dei Dinosauri, vissuti sulla Terra come dominatori incontrastati della maggior parte degli ambienti continentali per centinaia di milioni di anni e scomparsi come gruppo biologico da, più o meno, 66 milioni di anni, non solo ci sembra una favola per bambini ma nell’immaginario collettivo ogni volta si tende a trattarla come tale. Costituisce qualcosa di talmente distante dalla nostra capacità di percezione che, di fatto, non la reputiamo una questione degna di particolare attenzione. La conseguenza è che l’atteggiamento mentale prestato nei confronti di questi aspetti del mondo in cui viviamo è pressoché bambinesco. Figurarsi! Del resto abbiamo cose ben più serie a cui pensare, con problemi ben più impellenti da affrontare! Chissà, forse se riuscissimo ad attribuire un valore diverso al fenomeno vita su questo pianeta…

Di ragionamenti propedeutici ad una maturazione in tal senso se ne potrebbero fare tanti… Sussiste una qualche differenza fra noi che, a stare larghi, siamo presenti sul pianeta come gruppo biologico da circa 3 o 4 milioni di anni e, tanto per fare un esempio, i ricci di mare che esistono da oltre 300 milioni di anni? Se ci fosse, quale valore si dovrebbe attribuire ad una così evidente e marcata disparità? Tanto per cominciare potremmo domandarci a quale di queste due condizioni si debba attribuire una valenza maggiore dal punto di vista delle strategie adattative. Cioè quale dei due gruppi si ritiene detenga un “bagaglio di esperienze” in strategie dell’adattamento che possa considerarsi più utile a fronteggiare le continue, e spesso drastiche, variazioni dell’ambiente di vita? Dopo tutto, mi sembra che un argomento come questo, oggi come oggi, possa essere considerato di grande attualità!

Forse, allora, il problema dovrebbe essere posto in maniera completamente diversa ritenendo assai probabile che, dal punto di vista del processo evolutivo, non sia poi così rilevante capire per filo e per segno quanti siano 2 milioni di anni. Sono tanti e basta! Piuttosto, potrebbe risultare di gran lunga più importante riuscire ad afferrare il concetto più profondo che ognuno ha un suo tempo, con la propria “fetta”, più o meno durevole, di passato, presente e futuro. La vita di una farfalla copre la durata di qualche battito di ali, mentre una sequoia può continuare a stagliarsi verso il cielo anche per qualche migliaio di anni. Perciò non credo che abbia un senso attribuire un diverso valore che si basi sulla durata. L’osservazione della realtà ci mostra che tutti e tutte le cose concorrono ad un meccanismo generale dove ognuno fa, in qualche modo, la sua parte nel continuo e graduale divenire delle cose.

Il fatto che spetti a noi non solo la facoltà ma anche l’incombenza di attribuire un senso a tutto ciò ritengo sia una fra le più grandi sfide dell’umanità, probabilmente quella che potrebbe segnarne il futuro.

Ecco, finalmente, una vera cosa seria a cui pensare! Gli uomini che verranno fra 1 milione di anni saranno anche loro anatomicamente moderni. Racconteranno di noi come loro antichi antenati che li hanno preceduti in una terra umbra dall’aspetto, ancora una volta, irriconoscibile agli occhi di coloro che la vedono mentre ci vivono e che non l’hanno mai vissuta nelle sue sembianze preistoriche, potendo solo immaginarla.

Enrico Squazzini
Centro Ricerche Paleoambientali di Arrone