È difficile parlare del terremoto. È quasi impossibile non parlarne, però, quando arriva. Si può tacere, se tutta la città si sveglia per le scosse, se molta gente si riversa nelle strade in piena notte, se sulle facce dei ternani si disegna prima dell’alba l’espressione comune e diffusa di spavento e terrore? Spavento e terrore che poi sono niente, rispetto alla distruzione e alle morti che sono corse attraverso i paesi in cui il terremoto non si è limitato a spaventare, ma è arrivato sotto forma di devastazione totale e assoluta.
Ma si può parlarne senza ripetere parole scontate, obbligate, quasi rituali? Il rito ha la caratteristica essenziale nella ripetizione, e purtroppo di ripetizioni periodiche si tratta, ormai. C’è quasi una cronologia collaudata: lo spavento, le notizie drammatiche dalle zone colpite, la conta dei morti, la ricerca dei sopravvissuti, la mobilitazione delle istituzioni e dei volontari, le tendopoli, le raccolte di fondi, i piani di ricostruzione, le critiche ai piani, le ricerche delle cause dei crolli di ciò che non doveva crollare, e poi i primi cantieri, la lunga e lenta attesa di chi non ha più una casa, la breve e rapida capacità di dimenticare di chi è sfuggito al disastro.
Ci sono cose davvero nuove, da dire? Gli esperti ricorderanno tristemente che l’Italia trema spesso, ed è illogico sperare che non lo faccia più. Le statistiche dicono che c’è da aspettarsi un sisma di grado uguale o superiore a quello che ha appena colpito Amatrice e dintorni mediamente ogni sei o sette anni: non è insolito che l’Appennino Centrale abbia tremato nel 2016 dopo che aveva colpito L’Aquila nel 2009; è stato insolito che non ci siano stati terremoti di quella magnitudine tra quello d’Irpinia del 1980 e quello dell’Aquila del 2009.
Gli amministratori diranno che occorre ricostruire, e ricostruire bene; che dovranno essere rispettate le regole e le procedure, che occorrono soldi, che i soldi si troveranno, che si farà in fretta. La gente comune, in epoca di social network, riempirà le bacheche e le pagine soprattutto di critiche indignate, alternate a qualche post addolorato e un po’ retorico. E non mancherà neppure il pugno di idioti -pochi, per fortuna- che attribuirà la colpa del disastro alle cause più inverosimili e abiette. Parole nuove, concetti davvero significativi, quasi nessuno. Del resto, è davvero difficile trovarne: per questo ci si rifugia nel rito.
Forse si può provare ad uscire dal solito, e ritrovare concetti più diretti e immediati, nel punto di vista dei bambini. Un servizio radiofonico di pochi minuti, nei giorni subito seguenti, dava la parola ai bambini raccolti in una tenda di Amatrice, dove alcuni volontari cercavano di distrarli, per quanto possibile. “Sto qua perché la mia casa è rotta…”, diceva una voce piana, non rotta dall’emozione, una normale voce di bimbo. “La mia non è tanto rotta, ma quelle vicine sì, non riesco ad entrarci”, gli faceva eco un’altra.
Le case sono rotte, non si possono usare. Implicitamente, la logica diretta dei bambini sembra pronta a proseguire, anche se l’intervista non va oltre: bisogna aggiustarle, le cose rotte, o buttarle via. Bisogna che le nuove -cose o case, è lo stesso- non si rompano più, per quanto possibile. Bisognerà aggiustarle bene.
Fuori dal rito, nella semplice logica della gestione delle cose. Bisogna aggiustare le case, o bisogna trovare i soldi per comprarle nuove; bisogna stare attenti a non sprecare, e anche a non farsi rubare i soldi che servono per comprare un oggetto importante come una casa. Bisogna fare in modo che la nuova casa sia fatta da bravi lavoratori, con buoni mattoni e buon cemento.
Bisogna solo rispettare le regole, se le regole sono buone. Non si può chiedere altro agli uomini. Non serve a granché mobilitarsi in caso di emergenza, se poi si torna a dimenticare le regole e le buone pratiche. Anche se può sembrare strano e distante, il rispetto del normale vivere civile è forse la migliore opera di ricostruzione che ogni cittadino può mettere in atto. Pagare le tasse, ad esempio; ma anche rispettare le code alla posta, parcheggiare in maniera ordinata, essere gentili col prossimo, non gettare cartacce per strada. Sembra ridicolo, vero? Usare i cestini e non litigare per una precedenza non sono azioni che ricostruiscono le case, e certo non ridanno la vita ai morti sotto le macerie. Però, forse, tutto nasce da qui: dal banale e noioso rispetto civile, che inizia evitando di sporcare le strade o di saltare una fila, e poi continua, continua, fino all’idea che si deve lavorare correttamente, che è sbagliato rubare, che ogni azione che si compie, quando si lavora nella società civile, non serve solo a guadagnare lo stipendio, ma anche a costruire qualcosa di duraturo. Come le nuove case per i bambini che oggi hanno la casa rotta, ad esempio.
Piero Fabbri