È abbastanza curioso che una delle prime asserzioni che si sentono ripetere i giovani quando affrontano le basi della politica sia quella che li avverte che la democrazia non è un sistema perfetto, ma che è il migliore che si sia finora trovato. C’è in questo ammonimento una somiglianza con i primi approcci alla conoscenza scientifica: non ci vuole molto a capire, per uno studente di scienza, che la forza del metodo scientifico non sta nell’esaltazione della capacità di conoscere, quanto nel delimitare con esattezza i confini dell’ignoranza. Cerchiamo di capire bene i limiti delle nostre conoscenze, sembrano ripetersi gli scienziati: è attraverso questa ripetuta azione di riduzione che potremo essere ragionevolmente certi che quel che rimane sia vera conoscenza.
Nell’organizzazione delle società, la forma democratica ha radici antiche, ma fronde e frutti solo molto recenti. È inevitabile citare le città-stato dell’Antica Grecia, Atene su tutte, come seme storico della democrazia, ma nella giusta esaltazione e riconoscenza che si deve ai padri fondatori spesso di dimentica di ricordare che anche quella era una democrazia embrionale, con suffragio limitato a cittadini maschi, in una società dove -oltre a non considerare degne di parità le donnevivevano schiavi e altri che erano ben lontani dall’avere il diritto di voto. E, soprattutto, che quella era una democrazia diretta, in cui tutti gli aventi diritto ad esprimere un’opinione entravano comodamente nell’agorà, la piazza della città.
Gli stati democratici veri e propri sono molto più recenti. Appena un secolo fa, l’Europa che veniva fatta a brandelli dalla Prima Guerra Mondiale era un continente pieno zeppo d’imperi più o meno assolutistici, e gli stati che potevano a buon diritto dichiarare di avere una costituzione parlamentare e democratica non erano davvero molti.
Oggi, i giovani che sentono l’ammonimento a considerare la democrazia come un sistema buono, ma non perfetto, sono in genere stupiti dalla limitazione. L’aggettivo democratico è connotato da un senso sempre positivo, perché è inevitabilmente paragonato ai suoi opposti storici: l’autocrazia, la dittatura, l’assolutismo. In che senso, allora, si può considerare solo migliore, e non più semplicemente perfetto?
In genere, si spiega che il difetto della democrazia sta nel fatto che le minoranze devono subire la volontà della maggioranza: per sua natura, il meccanismo democratico prevede che una parte di cittadini non vedano esauditi i propri desideri. Tant’è vero che la perfettibilità della democrazia si misura in genere sullo sforzo che uno stato fa nel cercare di salvaguardare, per quanto possibile, anche i diritti e la qualità della vita delle minoranze.
In questi ultimi tempi, però, c’è un altro difetto proprio dei sistemi democratici che comincia a venire alla luce: e anche questo è inevitabile, ineliminabile. Un difetto che discende direttamente dalla massima virtù della democrazia, ovvero dalla sua caratteristica di rispecchiare la volontà del popolo. Perché in democrazia la maggioranza vince sempre, ma non è garantito che la maggioranza abbia sempre ragione, che per volontà divina sappia sempre optare per la scelta migliore. Ciò non di meno, lo spirito democratico non può che essere sacrosantamente quantitativo, e non può imporre criteri selettivi all’origine: l’unico suffragio veramente democratico è quello universale.
La democrazia si fonda sulla speranza che le parti contrapposte siano mediamente ragionevoli, mediamente tolleranti, mediamente civili, e su queste basi premia quelle che raccolgono maggiori consensi; al fine di ridurre il malcontento, proprio come il metodo scientifico cerca di ridurre l’ignoranza.
Ma in tempi di crisi, di povertà, di intolleranza, le premesse di ragionevolezza, tolleranza e civiltà possono venir meno, e non c’è rimedio. La democrazia resta il migliore dei sistemi possibili, e quando si ammala non resta altro che sperare che guarisca presto. Gli uomini sono imperfetti, e talvolta anche cattivi: se lo diventano in maggioranza, non si può far altro che confidare nel tempo, nella educazione, e sperare che il vento cambi.
Per questo uno degli elementi cruciali dei sistemi democratici è il mandato a termine, la predefinita scadenza dei poteri. Perfino Roma, che democratica non era, sapeva bene che un mandato che dà potere deve avere un termine, e che tanto più potere dà, tanto più breve deve essere la permanenza in carica. I due consoli restavano in carica un anno, il dictator, che governava da solo, soltanto sei mesi.
Il cambio ai vertici del potere non garantisce che il successore sia migliore del predecessore: la maggior parte delle persone del mondo, probabilmente, avrebbe preferito avere un terzo mandato presidenziale per Barack Obama piuttosto che veder entrare alla Casa Bianca Donald Trump: ma il principio sacrosanto del cambio della guardia resta un pilastro fondamentale, per il buon funzionamento democratico.
E anche su scala davvero più piccola, infinitamente più piccola, il ricambio è necessario e benefico. E nel constatare che questo è ormai il centesimo articolo scritto per questo giornale, e che con questo mese si completa un intero decennio di collaborazione con La Pagina, anche l’estensore di queste note ritiene opportuno e necessario smettere di occupare questo spazio prezioso su queste pagine.
Se mi è concesso, in quest’ultimo paragrafo, parlare in prima persona, dirò che vivo lontano da Terni, e per questo scrivere qui mi ha fatto sentire un po’ più vicino alla mia città natale: di questo sono molto grato a questo giornale. Ma, appunto, i rinnovamenti sono spesso salutari, e sempre indispensabili; ed è per questo che serenamente saluto e ringrazio chi ha avuto la voglia e la pazienza di leggermi in questi dieci anni.
Piero Fabbri