Attenzione allo skill mismatch

skills mismatch

Si tratta di un’espressione mutuata dalla lingua inglese che si riferisce alla differenza tra le competenze effettivamente possedute da una persona e quelle che dovrebbe avere per fare bene il proprio lavoro. Situazione per la quale pare che l’Italia detenga un poco invidiabile primato europeo.

Lo skills mismatch è dannoso tanto per le imprese quanto per i lavoratori. Ne esistono di due tipologie. Le persone possono essere più competenti di quello che sarebbe necessario. Questo implica che fanno un lavoro che non le fa sentire realizzate e che quasi sicuramente non le motiva, un lavoro che magari serve a mantenersi, in attesa di riuscire ad approdare a ciò per cui hanno studiato. L’11% dei lavoratori italiani si trova in questa situazione, con un conseguente aggravio di costi lato imprese. Le persone però possono essere anche meno competenti del dovuto. In Italia 6 lavoratori su 100 lo sono: non hanno le competenze per fare ciò che dovrebbero fare, con conseguente perdita di produttività. Considerando che la media OCSE è del 3,80%, che la Germania registra l’1,38%, il Giappone il 3,10% e l’Austria l’1,30%, non ce la passiamo bene. Un fenomeno che a livello globale, secondo il report di Boston Consulting Group “Fixing the Global Skills Mismatch”, riguarda 1,3 miliardi di persone, ed è in costante aumento: nel 2030 gli interessati saranno 1,4 miliardi.

Quali sono le cause di questo fenomeno?

La ragione principale sembra sia da ricercarsi nel sistema formativo. Il mondo del lavoro si è evoluto rapidamente, ma la formazione è rimasta sostanzialmente ferma al secolo scorso. Ovvero ad un’educazione standardizzata che ha l’obiettivo di formare persone che dovrebbero mantenere lo stesso impiego per tutta la vita. Peccato che non funzioni più così: il continuo aggiornamento tecnologico e le trasformazioni del mercato richiedono pensiero flessibile, apprendimento dinamico e continuo e mobilità. Fino a oggi infatti il capitale umano è stato trattato come un qualcosa di uniforme, invece include diverse realtà, basti solo pensare alle varie generazioni che possiamo rintracciare oggi in uno stesso ufficio: i baby boomers, la Generazione X, i Millennials e la GenZ. Ogni gruppo è portatore di interessi, valori, conoscenze, esperienze e ambizioni diverse. Ad esempio, secondo i sondaggi effettuati, la fascia lavorativa più giovane è disposta a rinunciare al 10% dello stipendio per passare meno tempo in ufficio, e solo per il 36% di loro fare carriera è una priorità.

C’è poi da considerare che nel breve volgere di due anni, nel non troppo lontano 2022, il 27% dei lavoratori sarà impiegato in mansioni che ancora non esistono! Alcune competenze tecniche diventano obsolete nell’arco di due-cinque anni, mentre nascono nuove professioni che in breve tempo diventano specialistiche.

La soluzione contro lo skill mismatch?

Più facile a dirsi che a farsi, dato che richiede un impegno sinergico di istituzioni e privati. Con il sistema scuola che dovrebbe esserne il protagonista principale.
Sarebbe necessario fornire, ad esempio, agli studenti competenze generiche, che li preparino a diversi possibili futuri occupazionali, lasciando che siano poi le aziende a fornire loro le eventuali competenze tecniche e specifiche. Libera da questo divario di skill, infatti, l’Italia potrebbe ottenere, si stima, un guadagno del 10% nell’efficienza delle allocazioni e un altrettanto netto miglioramento in termini di produttività, per non parlare della maggiore soddisfazione di tutte le persone coinvolte!

Alessia Melasecche
alessia.melasecche@libero.it